“Nessuno ha mai cambiato il mondo con 40 ore alla settimana”. Ipse dixit Elon Musk, fondatore di Tesla e uomo di punta della Silicon Valley, quella larga area a sud di San Francisco in California dove si concretizzano i sogni e le ambizioni della tech industry. La spavalderia dello slogan condensa la sostanza di un concetto che dalla Silicon Valley si è allargato a ogni tipo di azienda: la nuova cultura del lavoro non contempla più un tempo specifico del lavoro. L’idea tradizionale di turni 9-17 cinque giorni alla settimana è ormai superata e non solo per colpa degli yuppies di Wall Street, che già dagli anni 80 tenevano gli orologi solo per status symbol. Oggi i lavoratori da cartellino hanno sì turni e compiti precisi da svolgere; ma il tempo, i rapporti professionali e i luoghi di lavoro sono diventati estremamente fluidi, e in futuro sarà ancora più diverso. Il concetto di fluidità è di affascinante definizione, certo, ma pericoloso come pochi. Perché cambia di segno una verità incontrovertibile: la tradizione del lavoro d’ufficio con i suoi tempi netti e definiti è stata rovinata proprio dall’approccio “scialla” della Silicon Valley, che si è diffuso ovunque. E il dubbio è che il tecnottimismo abbia patinato di esuberante positività un modus lavorandi che non è così liberatorio e rivoluzionario come si tende a spacciarlo.

La cultura del lavoro è cambiata profondamente negli ultimi anni e lo scossone più forte lo ha dato proprio l’impressionante crescita delle aziende e delle ex startup della Silicon Valley, poi diventate dei giganti tech in grado di determinare ogni aspetto della nostra vita. Con la storytelling incentrato sullo sviluppo dal basso (uno studio, un garage, la stanzetta del campus universitario) e la “pirateria” della novità e velocità al posto dei dinosauri della vecchia informatica, la dedizione assoluta alla propria idea fino alla realizzazione e al successo si è cementata come base dello stile di Google, Facebook e Apple. Che si è infiltrato nella mentalità delle piccole e medie imprese e dei liberi professionisti, fino a modificare radicalmente luoghi, spazi e tempi di lavoro, sostiene l’analisi implacabile di Arielle Pardes su Wired USA.

L’esempio dei nuovi uffici è chiarissimo. Al posto di cubicoli depressivi o stanzette senza luce, oggi si progettano open space di design affollati di piante e punti luci specifici, da sfoggiare senza remore su Instagram con hashtag #ilovemyjob. Ma soprattutto, si fa in modo che gli impiegati stiano così bene sul posto di lavoro da non volersene mai andare. Nelle nuove sedi fioriscono palestre, campi esterni per giochi di squadra, aree relax in cui prendersi dieci-quindici minuti di pausa, food&beverage corner di ispirazione hipster con succhi di frutta, centrifugati, sandwich glutenfree e piatti vegan. E gli stessi uffici non sono più come una volta: nei casi citati dalla giornalista americana non esistono proprio più le postazioni, ognuno ha il suo computer e può appoggiarsi ovunque voglia all’interno dell’azienda per lavorare. A volte, in situazioni meno free, i computer sono in rete (e gli impiegati pure) ed esistono macrocomparti di competenza, ma in linea generale si favorisce la mescolanza dei lavoratori. L'abbigliamento da lavoro è molto più rilassato, casual-chic, non è obbligatorio il tailleur o giacca+cravatta: molte companies diramano specifici dress code per gli impiegati, ma il casual friday è ormai prassi consolidata.

Questa reinterpretazione multitasking dello spazio nelle sedi lavorative modifica radicalmente anche i rapporti umano/professionali tra gli impiegati, annullando le gerarchie e de-formalizzando le relazioni. Si può prendere un caffè con il capo dandosi serenamente del tu (almeno nei paesi che linguisticamente permettono il passaggio da lei a tu, in inglese sempre you resta), rispondere a telefonate in pausa caffè, condividere la cyclette con gli ingegneri e i commerciali. Impensabile in passato, dove l’organizzazione del lavoro aiutava nel riconoscimento dei ruoli apicali e la rigidità, in un certo senso, teneva separati nettamente casa e ufficio. Cartellino alla mano, si entrava in quel luogo deputato al lavoro, si svolgevano mansioni, si ritimbrava e si andava via.

Con l’avvento di new economy e gig economy, verso la fine dello scorso millennio, tutte le antiche tradizioni di cultura del lavoro sono saltate, e i ruoli e le professionalità hanno preso nuovi nomi. I colleghi sono famiglia: si condividono spazi ricreativi appositamente creati, si esce a cena insieme, si favoriscono relazioni e socialità. Spesso si cancella il concetto di ferie accumulate: quando Netflix annunciò che i giorni di vacanza dei suoi dipendenti erano senza limiti, la reazione fu di plauso incondizionato. L’abbattimento dell’ultima barriera lavoro/privato innalza la produttività, sostengono i capi della Silicon Valley. Ma pure le sindromi di burnout, a dirla tutta. Perché da Netflix, poi, si è scoperto che quei limitless holidays erano un paradosso, visto che i dipendenti sceglievano di fare pochissime vacanze pur di restare ancorati alle scrivanie.

Non bisogna illudersi che questo easy-going sia la risposta migliore all’etica del lavoro. C’è una variabile, la più preziosa, che viene fagocitata in questo capitalismo della libertà, ed è il tempo del singolo lavoratore. Non si parla più di equilibrio tra lavoro e vita privata, ma di work-life integration: il lavoro si integra nel privato. Lo permea, lo intossica nascondendosi sotto la semplificazione logistica e la continua reperibilità anche notturna. La deduzione cristallina è che il workaholism è incentivato, perché le aree relax permettono di fermarsi a dormire (poco, per carità) prima di ricominciare a lavorare per la consegna di un progetto urgente, e lo sport e l’alimentazione (quindi la salute del lavoratore) sono appaltati alla stessa azienda. Le palestre in azienda spingono il lavoratore a restare comunque lì dopo aver lavorato, come la possibilità di seguire corsi di aggiornamento o presentazioni in aree dedicate della sede. Anche le nuove e discutibili tecniche di socializzazione tra dipendenti -le partite con i Lego, le squadre aziendali, le escape room per cementare i rapporti e individuare i veri leader- servono a istituzionalizzare il concetto che il tempo extralavorativo è un tempo morto, inutile, paragonabile al tempo del sonno. Che infatti viene costantemente rosicchiato, spiega Davide Mazzocco nel saggio Cronofagia (D Editore), perché il tecnocapitalismo lavora sulla dedizione alla causa lavorativa e convince i dipendenti a impiegare comunque il proprio tempo libero, farlo fruttare e renderlo produttivo. La reperibilità nel lavoro da casa, da questo punto di vista, è la pietra tombale della libertà personale. Essere disponibili sempre ad un confronto, una task aperta, una mail da rispondere, rende chi lavora nella Silicon Valley uno schiavo del tempo altrui, alimentato dall’iperconnessione. Ma non è da meno in altri paesi del mondo: la ricerca 2020 di Randstad Workmonitor sull’Italia fotografa una realtà implacabile, dove il 71% dei lavoratori risponde a mail e Whatsapp di lavoro fuori dal liquidissimo orario di ufficio, e il 68% lo fa nel momento esatto, a qualunque ora del giorno e della notte li riceva. Il diritto alla disconnessione, regolamentato dall’articolo 19 della legge 81/2017, è un concetto paradossale in un’epoca in cui lo smartphone garantisce una rintracciabilità continua.

Regolamentare le comunicazioni è possibile e qualche tentativo tra le parti coinvolte è stato fatto. Proprio dalla stessa Silicon Valley, teatro di inchieste giornalistiche su discriminazioni, abusi psicologici, bullismo, molestie sessuali che hanno mostrato il lato oscuro del positivismo tecnologico, iniziano ad arrivare timidi segnali di retromarcia nei confronti di norme che venivano considerate obsolete/antiche/restrittive. Ok, il 9-17 non è un orario ideale per certi lavori, ma la hustle culture del 9-9-6 (dalle 9 alle 21, sei giorni a settimana) è insostenibile per tutti, e già averlo preso in considerazione è un passaggio culturale importante. Nell’epoca della fluidità lavorativa, stabilire delle regole è ancora l’unica via per non farsi sopraffare, lavorare meglio, garantire diritti e libertà, evitare di sottoporre dipendenti e capi a orari massacranti. Ma soprattutto, significa riconoscere l’urgenza di rivedere ancora una volta i nuovi luoghi di lavoro smart, parola stra-abusata che non può che evidenziare un dubbio fatale: non sarebbe meglio che l’ufficio tornasse ad essere solo un ufficio?