«C’è una storiella ebraica, una delle solite barzellette degli ebrei sugli ebrei, che dice: “Un padre, volendo insegnare al figlio a essere meno pauroso, ad avere più coraggio, lo fa saltare dai gradini di una casa. Lo mette in piedi sul secondo gradino e gli dice: “Salta, che ti prendo”. Il bambino salta. Poi lo piazza sul terzo, dicendo: “Salta che ti prendo”. Il bambino ha paura ma, poiché si fida del padre, fa come questo gli dice e salta tra le sue braccia. Quindi il padre lo sistema sul quarto gradino, e poi sul quinto, dicendo ogni volta: “Salta che ti prendo”, e ogni volta il bambino salta e il padre lo afferra prontamente. Continuano così per un po’. A un certo punto il bambino è su un gradino molto in alto, ma salta ugualmente, come in precedenza; questa volta però il padre si tira indietro, e il bambino cade lungo e disteso. Mentre tutto sanguinante e piangente si rimette in piedi, il padre gli dice: “Così impari, mai fidarti di un ebreo, neanche se è tuo padre”».

No, non è la scena di un film di Woody Allen bensì l’incipit di Puer aeternus, un libriccino di 150 pagine pubblicato anni fa da Adelphi e scritto dallo psicoanalista James Hillman, ebreo americano. Che in sintesi spiega perché la vita vera, e l’amore, iniziano soltanto se e quando si accetta la possibilità del tradimento, subìto e agito. Se e quando si mette in conto la possibilità di essere feriti e delusi, di poter ferire e di poter deludere. Diversamente, spiega Hillman, ci si ritrova asserragliati in un paradiso artificiale, e si diventa irraggiungibili, e inautentici, e paranoici. Insomma, un buon soggetto per un film di Cronenberg o una puntata di Black Mirror, ma una pessima compagnia per sé e per gli altri.

Però: in questi giorni spaventati e rinchiusi e sospesi e diffidenti, che nostalgia di quando da piccoli ci si fidava e affidava incondizionatamente. Di quando bastava la più incongrua rassicurazione della mamma o lo sguardo lungo del papà per sentirsi al riparo da tutto, tenuti d’occhio seppur da lontano. Io non so dove inizia e dove finisce il potere taumaturgico del voler bene. Se chi col suo bene ti rassicura sei salvo? E lo sei anche quando smetti di credere ai suoi superpoteri? Basta averne fatta una scorta cui attingere ogni volta che serve? Basta ricordarsi di quando di notte ti svegliavi di soprassalto e sul comodino trovavi un bicchiere d’acqua fresca? Cosa può davvero appagare il nostro bisogno di consolazione?

Bah, chissà. Però proprio adesso, mentre sto finendo di scrivere queste righe, Bob Dylan a sorpresa ha messo online Murder Most Foul (Il delitto più atroce, dall’Amleto di William Shakespeare), una canzone di quasi 17 minuti, scura, dolente e magnifica, che illumina il presente e il suo declino partendo dalla tragedia dell’assassinio del presidente Kennedy, «l’anima di una nazione strappata via». E che alla fine si rivolge a un leggendario deejay americano e gli chiede di suonare dei pezzi. Beatles, Stan Getz, «Charlie Parker e tutta quella roba», Nat King Cole, Nina Simone, Thelonious Monk, Beethoven, «play Love me or leave me by the great Bud Powell...». Una liturgia sublime che vale tutti i Nobel.

Nel presentarla in rete, Dylan ha scritto: «È una canzone inedita, che ho registrato tempo fa, e che potreste trovare interessante. State al sicuro, state attenti e Dio vi accompagni».

Salta che ti prendo.