Ci sono due modi per misurare la velocità con la quale sono cambiate le relazioni di coppia in questo secolo. Uno è la letteratura. Quattro anni fa, Guanda pubblicava il romanzo definitivo sul divorzio al tempo delle chat. S’intitolava Eccomi, e a leggerlo si aveva la sensazione (rassicurante o devastante: a seconda della predisposizione d’animo) che Jonathan Safran Foer avesse spiato le nostre vite: magari non ci erano capitate quelle cose lì, ma ci erano capitate proprio in quel modo. Era uno di quei casi - il più famoso è Madame Bovary - in cui l’autobiografismo dell’autore è uguale preciso a quello del lettore. Flaubert diceva che Emma Bovary era lui; Safran Foer fu ancora più preciso: «Non è la mia vita, ma sono io» - esattamente quel che era impossibile non pensare leggendolo.
A marzo Einaudi pubblicherà Fleishman a pezzi. L’autrice è Taffy Brodesser-Akner, l’intervistatrice più amata dagli americani (lavora per il magazine del New York Times), al suo primo romanzo. Che riesce a essere il nuovo romanzo definitivo sul divorzio in un’epoca in cui non si rimorchia più al bar, ma sullo schermo del telefono. Forse la morale è che quest’epoca è troppo instabile per avere un’opera definitiva che sia davvero definitiva.
Il secondo modo per misurare la velocità del tempo e la mutevolezza delle relazioni è essere entrate in una relazione lunga prima che esistessero gli smartphone, ed esserne uscite quando le app da rimorchio erano già state inventate. In quel caso la letteratura non vi serve; in quel caso la letteratura siete voi. In quel caso siete Toby Fleishman, e ignoto vi è il nuovo mondo.

Jonathan Bazzi è uno scrittore trentacinquenne. Il che significa che era alle elementari quando sono stati messi in vendita i primi smartphone. Tempo fa ha detto che non ha mai avuto una relazione con qualcuno che non avesse conosciuto online (resisterò alla tentazione di mettere tra virgolette “conosciuto” per non rendere troppo evidente quanto sono antiquata nella mia convinzione che ricevere messaggi da uno sconosciuto non significhi conoscerlo).
Di fronte all’affermazione di Bazzi, mi sono sentita come Fleishman, o come mio nonno quando mi mandava a cambiarmi giacché indossavo una sovversiva felpa con foto dei Beatles. Non è che non esista un traffico di vegliarde sulle app da rimorchio, eh. Ma, anche lì, ci si divide in due.
Quando arrivò Tinder, come tutte quelle che di mestiere scrivono la scaricai. La tenni aperta un paio di giorni. All’inizio mi sembrava che la cosa più interessante fosse la scelta delle foto: come scegli di rappresentarti, quando vuoi rimorchiare? Poi un amico più giovane mi spiegò che il mio punto di vista era sbagliato: tutte le foto online servono per rimorchiare, mica solo quelle che lo dichiarano. Perfino su LinkedIn si spera di raccattare un flirt. È l’evoluzione di quella canzone che in un musical di Broadway spiegava che «the internet is for porn»: l’internet serve a rimorchiare.
La cosa che più spesso pensai, mentre cercavo di capire cosa dire di quella novità, fu: ma non muoiono di vergogna? Iscriversi a Tinder non è come uscire con al collo un cartello con scritto «cercasi copula»? Sono passati otto anni da allora, e sono sempre più in minoranza. Le mie coetanee non sono come Bazzi (siamo pur sempre della generazione che aveva una vita sessuale prima che esistessero non solo gli smartphone ma addirittura i modem), ma quasi tutte ormai trovano normale avere relazioni online.
Persino quelle di cui dicevo all’inizio - quelle che hanno matrimoni ventennali o più, e il marito l’hanno conosciuto come ci si conosceva una volta: senza distanziamenti e virtualità - hanno un collega al quale mandano foto di tette, un cognato da cui ricevono pornomessaggi sgrammaticati, uno sconosciuto che hanno aggiunto su Facebook perché amico del fratello d’un ex compagno di scuola, e quando quello all’improvviso una sera tardi ha scritto nei messaggi privati «come sei vestita?» l’hanno trovato del tutto normale. Le mie coetanee sono Toby Fleishman: se la vita ti catapulta in un mondo nuovo, passato il turbamento iniziale ti adegui. L’essere umano è adattabile.

Sbagliare finestra della chat è la nuova macchia di rossetto sul colletto della camicia

Il mondo nuovo è pieno di problemi vecchi. La vecchia amica che fa da voce narrante di Fleishman, per esempio, si lamenta che lei e il marito non scopino più. È che puoi desiderare solo quel che non hai, mica quel che è già tuo, lamenta (non ha imparato niente da Hannibal Lecter: si desidera quello che si vede). Non siamo la generazione nativa di Tinder ma siamo pur sempre della seconda metà del Novecento: l’epoca che ha inventato la romanticizzazione del matrimonio; siamo quelle che si aspettano passioni cinematografiche anche dopo anni di serate sul divano con la pinza in testa e litigi sulla lavastoviglie da caricare. Problemi non vecchissimi (le nostre nonne, che restavano sposate a vita, sapevano che la vita di tutti i giorni non sarebbe stata Cime tempestose), ma comunque vecchi: dell’aspettarsi i fuochi d’artificio nelle relazioni a lungo termine scriveva già negli anni 70 Erica Jong - che infatti ha divorziato quattro volte: nessun matrimonio romanticizzato è per sempre.
“Conoscersi”, per esempio, è un concetto la cui definizione non diverge solo tra chi tiene conto dell’online e chi no: quando la moglie gli racconta che una volta il suo capo ci aveva provato, Toby Fleishman trasecola. «Ma mi conosce», esala, con le sue regole antiquate secondo le quali, se ci provi con la moglie d’un altro, quello dev’essere almeno un altro invisibile, un altro con cui non sei mai stato a cena, un altro che esiste solo come proiezione sulle pareti della caverna.

Una volta avevamo un lessico condiviso. “Conoscersi” significava una cosa precisa, “amico” era uno cui potevi chiedere un prestito, mica uno sconosciuto a una cui foto di vacanza hai messo like. Una volta la parola “fine” aveva un senso definitivo.
Se ci si separava, ci si perdeva di vista: potevi non avere mai più notizie dell’altro. A meno di non fare interrogatori imbarazzanti ai figli che tornavano dal weekend, come stava papà, ma ti sembra felice, c’era qualche nuova amica in casa con voi. O di assoldare un investigatore, che però faceva subito ossessionata cui le amiche passavano il numero d’uno psicologo. Adesso, non è finita mai. Abbiamo voluto trasformare il matrimonio da soluzione istituzionale a rappresentazione sentimentale, e siamo finite in una canzone di Luca Carboni che a 15 anni ci sembrava romantica e a cinquanta è un incubo: quella in cui le storie d’amore «non finiscono mai, non finiscono mai, non finiscono mai mai mai». Tutta la vita, per anni dopo che ci si è lasciati senza lasciarsi, puoi controllare quand’è l’ultima volta che si è connesso a WhatsApp (cosa ci faceva online all’una di notte, con me aveva sempre sonno presto), chi ha aggiunto su Facebook (chi è questa, guarda che foto da disperata, ma copriti), in che ristoranti mangia (abbiamo smesso di nutrirci senza instagrammarci).
Siamo in grado di sapere troppo, vale anche prima della separazione. Il povero Toby Fleishman che corre su Facebook a controllare vita, opere e omissioni del tapino con cui s’è convinto la moglie abbia una relazione, e ne vaglia e ne disprezza i gusti (gli piacciono i programmi sbagliati, la musica sbagliata, tutto sbagliato), il derelitto Toby è tutte noi: è patetico come tutte noi, è patetico come il tempo che abitiamo.
Questo patetico tempo in cui, a quel punto d’un matrimonio in cui i nostri genitori compravano biancheria sexy, noi ravviviamo il tutto mandandoci foto oscene; solo che non siamo nativi digitali, e spesso sbagliamo bottone. Sbagliare finestra della chat è la nuova macchia di rossetto sul colletto della camicia.
Qualche settimana fa un autore americano, durante una riunione su Zoom, si è tirato fuori l’uccello davanti a mezza redazione del New Yorker, probabilmente convinto d’aver pigiato sulla chat che aveva lì vicina, quella con la moglie o con un’amante. Negli stessi giorni una mia amica ha messo nella chat delle mamme della classe del figlio le foto destinate alla chat con l’amante: vi basti sapere che non erano foto montessoriane.
Forse arriveremo a un punto di saturazione e torneremo indietro. Chiuderemo tutti i social, e torneremo ai cari vecchi matrimoni d’una volta. Quelli che duravano una vita, e in cui desideravi quel che vedevi dal vivo, non quel che ti faceva bip sul display. Torneremo al vecchio mondo, quello in cui, per le corna col cognato, s’aspettava il pranzo di Natale; e nel frattempo niente messaggi che rendessero evidenti i suoi problemi con l’ortografia.

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Rudolf Bonvie, dialog 2, 1973. Courtesy galleria Priska Pasquer

La foto in apertura è Dialog 2 (1973) di Rudolf Bonvie. Questo e altri scatti del fotografo sono oggetto di una vendita speciale su Priskapasquer.art/