In principio fu un incubo. Mio papà tifava Inter, mio fratello Milan, e le loro liti, gli astrusi dibattiti, imbrigliavano le settimane da una domenica all’altra, mentre io e la mamma - milaniste per solidarietà col non-capo-in-carica ma silenti per timore di ulteriori tafferugli - ci chiamavamo fuori. Poi grazie al cielo gli umori si sono mitigati, gli interessi famigliari diversificati, e il rumore di fondo del calcio è scivolato fuori dalla mia vita. Finché la sera di molti anni dopo è andata così: la televisione è accesa a volume bassissimo, mio figlio quattrenne si aggira per casa, io e suo papà traffichiamo in cucina. Poi andiamo di là, e lo troviamo appiccicato allo schermo, le pupille illuminate come le fiammelle dello scaldabagno. Fiammelle rossonere. Un predestinato? Un matto formato XX Small? Come che sia, da quel giorno nulla è stato più come prima.

Sull’onda di misteriosi tam-tam, lui accende la tv quando gioca il Milan, toglie l’audio (io non ne sono ancora capace) e fa la telecronaca come manco Sandro Ciotti. All’asilo s’innamora di una bambina che non a caso è la figlia di Savićević, e pazienza se da grande lui darà un’altra versione dei fatti, irrilevante dal mio punto di vista. Il mio punto di vista è quello di una che si è appassionata alla sua passione, al suo modo di coltivarla.
La squadretta dell’oratorio e quella allegra serietà che la tiene insieme (tonificante perfino per i molti padri e le poche madri che assiderano a bordo campo pur di godersi la gita); le maglie di giocatori di mezzo mondo chieste in regalo come bene primario. La sua prima volta (e per me l’ultima) quando novenne l’ho accompagnato allo stadio, il Milan ha vinto al 92° minuto, e io ho ringraziato gli dei d’essere dalla mia parte, per quanto sconsiderata quella parte fosse. Quel pomeriggio di un giorno da cani che è rimasto ore, muto, alla finestra, dopo non so quale partita persa dal Milan ai rigori, mentre io tapinamente mi convincevo di avere sbagliato tutto. Quella primavera che è partito con mio fratello per Atene per non so quale finale, e io ho pregato perché l’aereo non precipitasse e il Milan vincesse, cosa che gentilmente ha fatto mentre guardavo la partita in tv, semipiangente.

Il resto sono le storie che girano intorno a quella palla, e che se me le raccontano allargando il cerchio è una festa. «Ma certo che Gattuso è un grande, brava!, ascoltami però, non la faccio lunga ma la sua storia è esemplare, vedrai...». Ho visto, e anche se mi sono scordata quasi tutto è stato bellissimo. Beati gli uomini che fanno del tifo un’arte, e che arredano quella loro stanza dei giochi con un sacco di pirlate ma anche con un’energia e un’immaginazione invidiabili. Il mio sapientissimo amico Giacomo Papi, ovviamente milanista, mi ha detto che il tifo è l’ultimo rifugio dei maschi. Boh. Le femmine (comprese le mie amiche tifose ed espertissime) non ce l’hanno un rifugio così, non ne hanno bisogno, o hanno una prateria dove giocare. Ma a me quel rifugio piace, se mi fanno dare una sbirciatina sono contenta, e pazienza se mi sfuggono le regole del fuori gioco.

Grazie di cuore a Gianni Mura, il perché è ovvio.
E grazie per sempre a Albert Camus per tutto quello che ha fatto e scritto, e che da ragazzo è stato un portiere: «Dopo tanti anni in cui il mondo mi ha concesso molte esperienze, ciò che so con maggiore certezza sulla moralità e sul dovere lo devo al calcio (…). Ho capito presto che la palla non finisce mai dove te l’aspetti. Questo mi ha aiutato nella vita a difendermi dall’impostura delle parole». Palla al centro, e via.