Abbiamo negli occhi le immagini dei viaggi disperati attraverso i quali i migranti arrivano in Italia. Ma alzando lo sguardo scopriamo un mondo in movimento: sono milioni le persone che - per la guerra, per le violenze, per cercare lavoro, per i cambiamenti climatici - vivono in un Paese diverso da quello in cui sono nate. Secondo il World Migration Report 2020, i migranti nel 2019 erano 272 milioni di cui il 43% donne. E proprio alla migrazione femminile è dedicato Women on the Move, il progetto realizzato da un gruppo di fotografe che fa parte di The Everyday Projects (una comunità globale di visual storyteller che sfida gli stereotipi offrendo diverse prospettive). Abbiamo chiesto a quattro di loro (le cui foto vedete in queste pagine) di raccontarci la donna in cammino che hanno fotografato e seguito. Il risultato sono quattro storie, quattro spaccati di realtà che ci portano dal Vietnam a Singapore, dall’Honduras agli Stati Uniti, dallo Yemen all’Olanda, dallo Zimbabwe al Sudafrica.
Un futuro migliore Ngoc Tuyen ha 34 anni, viene da Tây Ninh, una città nel Sud Est del
Vietnam dove ha lasciato i genitori e un figlio cinquenne, ed è arrivata a Singapore nel 2019 per sposare Tony Kong, singaporiano 45enne, che ha conosciuto attraverso la piattaforma Facebook di un’agenzia di mediazione matrimoniale. Un fenomeno diffusissimo: nell’ultimo decennio migliaia di vietnamite hanno contratto matrimonio con un cittadino di Singapore lasciando le loro case per una vita migliore e una stabilità economica che consentisse loro di aiutare la famiglia d’origine.
Ma le cose non sono semplici. Anche perché la possibilità di trasformare il visto temporaneo in un permesso di lungo termine con cui lavorare legalmente dipende dalle condizioni economiche e dall’occupazione del marito. E questa, come racconta, è una delle cose che preoccupa Tuyen, visto che Tony non lavora da due anni. Quello che le sta a cuore dice, è «trovare un impiego presto, imparare l’inglese e aiutare i miei genitori e mio figlio». Intanto fa la manicure a domicilio. Ma per capire quale sarà il suo futuro può solo aspettare.
In cerca di asilo L’America Latina detiene il primato mondiale degli omicidi nei confronti dei trans; quasi l’80%, per la maggior parte trans da uomo a donna, non arriva ai 36 anni e l’Honduras è uno dei Paesi peggiori al mondo in cui essere LGBTQIA. Infatti per salvarsi la vita molte migrano a nord verso il Messico e gli Stati Uniti. Come ha fatto Kataleya Nativi Baca, una donna transgender di 28 anni che è fuggita da San Pedro Sula, cittadina dell’Honduras dove è nata e cresciuta, e dove era in pericolo. Poco prima che se ne andasse, nel 2019, il fratello l’ha picchiata e le ha rotto una clavicola. «Ha cercato più volte di uccidermi», racconta Kataleya «ma alla fine una notte sono riuscita a scappare». Il suo viaggio l’ha portata in Messico, prima a Tapachula dove è rimasta qualche mese e poi a Tijuana. Qui, al confine con gli Stati Uniti è entrata nelle lista d’attesa per presentare richiesta d’asilo. A Tijuana è passata da un centro di accoglienza all’altro (in uno è stata derubata, in un altro picchiata) e, quando ormai mancava poco al colloquio in cui esporre il suo caso, i confini sono stati chiusi per la pandemia di Covid-19. «Da un giorno all’altro ogni cosa è precipitata», racconta Kataleya che è ancora a Tijuana in attesa che qualcosa cambi.
In fuga dalla guerra Sono cinque anni che Thana Faroq non torna a casa. Il suo Paese, lo Yemen, è sconvolto dal conflitto. Nata e cresciuta a Sana’a, la capitale, ricorda ancora «la prima notte in cui mi sono svegliata per i bombardamenti sulla città, era il 25 marzo 2015». Thana, che è una fotografa, è partita dallo Yemen nel 2016 per frequentare un master di fotografia documentaristica a Londra.
L’idea era tornare dopo il corso, ma «la guerra divampava e gli aeroporti erano chiusi». Così nel 2017 da Londra ha raggiunto il marito in Olanda, entrambi hanno fatto richiesta di asilo e ora hanno lo status di rifugiati. I suoi scatti sono uno specchio della sua vita, la fotografia quasi un metodo terapeutico per registrare e dare corpo alle emozioni, al dolore, ai cambiamenti. Frequenta un master, tiene workshop per migranti e richiedenti asilo, è una freelance, ha appena pubblicato il libro fotografico
I don’t recognize me in the shadow che ripercorre la sua storia dallo Yemen all’Olanda. Dove vive da quattro anni, ma si sente ancora provvisoria, «le mie emozioni non sono mai in un solo posto», anche perché, scrive, «la mia famiglia (la madre e tre fratelli, ndr) è rimasta nello Yemen e mi preoccupo per loro ogni singolo giorno».
Dalla parte dei bambini Judith Manjoro nello Zimbabwe insegnava alle superiori, ma quando è arrivata a Johannesburg (Sudafrica) nel 2005, scappando dal suo Paese dove rischiava la vita, è finita a fare la donne delle pulizie e mille altri lavori (come accade a moltissimi immigrati, il 7% della popolazione e il 5,3% della forza lavoro, che faticano a trovare un impiego regolare o adeguato alle loro qualifiche). Nel cuore però è rimasta un’insegnante. E quando si trasferisce e Yeoville, un sobborgo della capitale popolata dalla manovalanza sudafricana e dai migranti che arrivano da altri Paesi vicini, si accorge che per le strade gironzolano un sacco di bambini che dovrebbero essere a scuola. Soprattutto i figli degli irregolari che non hanno i documenti necessari per l’iscrizione. Quindi con l’aiuto di Siboniso Mdluli, anche lei un’insegnante dello Zimbabwe, nel 2009 organizza delle classi di studio. Da lì è un crescendo: le richieste aumentano; le due vengono anche arrestate per “esercizio di scuola illegale”, ma continuano la loro missione educativa. Che culmina con l’apertura della Velamfundo Primary School, una scuola dedicata soprattutto ai figli dei rifugiati e degli immigrati per dare a chi è più svantaggiato la possibilità di costruirsi un futuro. L’anno scorso alla Velamfundo - che si regge grazie alle rette bassissime e alle donazioni della comunità - c’erano 350 studenti. Ma la pandemia, la perdita di lavoro, il lockdown stanno rendendo tutto più incerto.