In una tarda mattina di febbraio con le nuvole così basse che sembrava già arrivato il crepuscolo, Frances McDormand era piuttosto nervosa. Me l’aveva confessato durante una passeggiata lungo la strada principale della cittadina costiera in cui vive, un luogo modesto e nascosto, così lontano da Hollywood che i riflettori degli studios faticherebbero a trovarlo. Eppure qualcuno ci era riuscito. Quel giorno, il telefono aveva squillato a casa di McDormand, lei non aveva riconosciuto la voce maschile dall’altra parte, ma l’uomo che la chiamava di sicuro sapeva con chi stava parlando. Aveva infatti detto che stava guardando Tre manifesti a Ebbing, Missouri, il film del 2017 in cui interpreta Mildred, una madre vendicatrice, ed è allora che McDormand aveva capito di essere al telefono con un ammiratore che era stato capace di scovare il suo numero, seppur non presente sull’elenco. «È stata la prima telefonata inquietante ricevuta in sedici anni che vivo qui», mi ha confessato. Anche se aveva riattaccato subito, McDormand si chiedeva quali domande avrebbe potuto fare a quel tizio: «Bene, quale parte sta guardando? La scena in cui lancio la bottiglia molotov contro la stazione di polizia?». Magari l’ammiratore sperava di parlare con Mildred la virtuosa, che arringa preti e poliziotti e cerca giustizia. Invece ha trovato Frances, una donna di 63 anni che si ferma a scambiare due chiacchiere con chiunque incontri nella sua cittadina, non si ritiene famosa e ha vinto due Oscar. Il che è accaduto perché entra nei suoi personaggi in maniera molto convincente: credi di conoscerla perché conosci loro.

Per questo film ho creato un personaggio, esattamente come ho creato me stessa in 63 anni.

Che si tratti della gentile Marge di Fargo, dell’irascibile Olive di Olive Kitteridge o della
Jane bohémienne di Laurel Canyon - Dritto in fondo al cuore, McDormand interpreta sempre donne che hanno le idee chiare. Si capisce subito cosa amano e cosa no, di chi diventeranno amiche e chi non sopportano. Poiché è raro che conceda interviste, quasi tutti vedono la vera McDormand durante le cerimonie di premiazione trasmesse in diretta tv, dove risplende con la sua vena iconoclasta, senza un filo di trucco o un grammo di botox, e dove ha persino osato presentarsi con addosso una giacca di jeans presa dal suo armadio invece che con un abito di alta moda preso a noleggio (un atto di non conformismo che, a Hollywood, equivale a una dichiarazione di guerra). McDormand è così refrattaria a qualsiasi cerimonia in cui gli attori vengono trasformati in gladiatori del glamour che, quando chiesero a suo marito, il regista Joel Coen, di produrre gli Oscar a fianco del fratello Ethan, lei gli suggerì di ambientare la trasmissione a Coney Island, costringendo in quel modo la crème di Hollywood a mescolarsi ai fenomeni da baraccone.

La linea di demarcazione tra McDormand e i suoi personaggi diverrà ancor più
sfocata con l’uscita del suo nuovo film, l’intimo Nomadland: un dramma di vite al tramonto, della regista Chloé Zhao, in cui McDormand interpreta Fern, una vedova che carica i bagagli su un van e si unisce a un gruppo di anziani lavoratori itineranti per sbarcare la vecchiaia con mestieri temporanei in giro per il West americano. Il film avrebbe richiesto a questa diva riservata più di quanto sia solita dare, ma quando
McDormand ha incontrato per la prima volta Zhao, all’inizio del 2018, era soprattutto curiosa di capire che cosa avrebbe pensato di lei quella regista emergente: «In sostanza la mia posizione era: voglio essere interessante. Lei mi crede tale?». È forse un’ammissione sorprendente da parte di una donna che, all’epoca, stava per vincere il suo secondo Oscar per Tre manifesti, ma McDormand aveva compiuto da poco sessant’anni e forse temeva che le buone occasioni stessero diventando più difficili da trovare. Già prima, per quasi tutti i suoi ruoli più celebri, aveva dovuto insistere quel tanto in più, esperienza che la spinse a diventare anche produttrice. «Il nostro settore discrimina molto in base all’età», mi ha confermato la regista Zhao al telefono. «Invece, una persona come Frances McDormand, che è così autenticamente se stessa, che non ha cercato di cancellare i segni sul viso o di coprirli per adattarsi al mondo del cinema… per me sarà sempre interessante». E infatti quell’autenticità è stato proprio ciò che ha incuriosito Zhao. Nei suoi film precedenti, The Rider - Il sogno di un cowboy e Songs My Brothers Taught Me, la regista aveva scritturato attori non professionisti, e aveva costruito per i personaggi un arco di trasformazione che riflettesse le loro esperienze reali. Nomadland, che si basa su un saggio di Jessica Bruder, le avrebbe offerto la stessa opportunità: le vere nomadi del libro, come Linda May e Swankie, sono state convinte a interpretare importantissimi ruoli da non protagoniste nel film. E, poiché desiderava che quelle donne fossero semplicemente se stesse davanti alla macchina da presa, Zhao ha deciso che, per coerenza, anche McDormand avrebbe dovuto interpretare una versione di sé: «La cosa molto interessante sono le stratificazioni», ha detto. «Fran interpreta Fern, ma anche il nome “Fern” è venuto da lei: è la persona che crede potrebbe essere se facesse una vita itinerante».

frances mcdormand e david strathairn in nomadlandpinterest
20th Century Fox/The Hollywood Archive/Alamy
Frances McDormand con l’attore David Strathairn in un momento di Nomadland. Il 26 aprile scopriremo quante delle sei nomination diventeranno Oscar.

VOLTARE LE SPALLE A HOLLYWOOD è stato davvero un sogno coltivato da McDormand, cambiare nome e partire con un camper quando avesse compiuto sessant’anni. «Chloé ha attinto a questa verità», ha confermato l’attrice, «ma era un momento diverso della mia vita, avevo detto a mio marito che non ne potevo più e volevo mollare tutto». Nomadland le ha permesso in qualche modo di realizzare quel sogno e non solo: molte persone con cui interagisce nel film neppure sapevano che fosse un’attrice famosa, la credevano una nomade come un’altra, e le parlavano come fosse una donna normale, esattamente quello a cui lei ha sempre aspirato. Sotto alcuni aspetti, questa verosimiglianza può rivelarsi anche snervante: McDormand è rimasta sorpresa per quanto si sentisse stanca dopo lunghe giornate di semplice presenza davanti alla cinepresa, dove reagiva alle storie che le persone vere raccontavano. Inoltre, la regista le ha chiesto di lavorare realmente come Fern, facendo la magazziniera in California o raccogliendo barbabietole in Nebraska. Ne è risultata una performance mai vista prima in McDormand, qualcosa che non attiene alla recitazione ma all’essere. Come ha scritto Justin Chang, critico cinematografico del Los Angeles Times, nella sua recensione di Nomadland: «McDormand non scompare in Fern, ma viene rivelata da Fern, e Fern viene rivelata da lei». Una sorta di ritratto ineffabile, e difficile da azzeccare, il che era esattamente nelle intenzioni di Zhao: «Mi piace pensare di aver ripreso una grande recitazione, ma anche l’essenza di Fran». Eppure, regista e protagonista hanno spesso avuto una visione discordante rispetto a quanta parte di quell’essenza utilizzare. Ci sono dettagli grandi e piccoli tratti direttamente dalla vita di McDormand: Fern sfoggia orgogliosa un servizio di piatti che il padre (reale di McDormand) le ha regalato in occasione della laurea; e Zhao ha scritturato una delle più vecchie amiche dell’attrice per farle interpretare la sorella di Fern, così che le recriminazioni che si scambiano sullo schermo potrebbero essere reali.

Quando però Zhao ha ventilato l’idea di trovare un ruolo nel film per Pedro, il figlio di McDormand, o suggerito che il marito defunto di Fern - che si intravede solo in una foto - potesse essere interpretato da Joel Coen, il vero marito di McDormand, la protagonista ha posto il veto. «Devo credere che non si tratti soltanto di un documentario su di me», ha affermato, «io ho creato un personaggio, esattamente come ho creato me stessa in 63 anni».

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Todd Williamson/January Images
Frances McDormand e la regista Chloé Zhao in una pausa durante le riprese di Nomadland, tratto da un libro della giornalista Jessica Bruder. Il film, Leone d’oro al Festival di Venezia, ha vinto due Golden Globe (miglior film drammatico, miglior regista).

Per gran parte della sua vita, McDormand è stata affascinata dall’idea che ciascuno possa creare un’immagine di se stesso. Quanto ha a che vedere con l’autenticità? «Probabilmente il mio primo ricordo di ciò risale alla quinta elementare, quando mi sono detta: oh, so che idea hanno di me, ma la ribalterò», ha risposto. Di lei allora si sapeva che era la figlia adottiva di Vernon McDormand, un ministro dei Discepoli di Cristo. In una famiglia del genere, era richiesta una buona dose di rispettabilità pubblica cui lei si attenne, ma, non appena un suo professore di inglese a Monessen, in Pennsylvania, le chiese di leggere la parte di Lady Macbeth per un laboratorio scolastico, l’idea di poter finalmente abbandonare le convenzioni sociali la entusiasmò. «È stato l’inizio», ha detto, «una ragazzina delle medie, molto timida e lievemente sospetta, che riesce a stare in piedi davanti alla gente e a catturare l’attenzione». Amava quei personaggi femminili di Shakespeare avidi di potere quanto gli uomini. «Come ho chiesto spesso a Joel, perché voi uomini non scrivete ruoli migliori per le donne? Anzi, perché non scrivi un ruolo per un uomo, poi lo fai interpretare a me?».

Aveva sposato Coen non molto dopo il suo debutto sullo schermo nel 1984, con Blood Simple - Sangue facile, che lui aveva diretto con Ethan. Dieci anni dopo, i fratelli Coen avrebbero dato a McDormand il ruolo che sarebbe diventato il suo cavallo di battaglia, e che poteva essere interpretato solo da una donna: la pimpante Marge, il capo della polizia - incinta - in Fargo. Quel film la rese famosa, una condizione che, a suo parere, andava stroncata sul nascere: assunse un pubblicista e gli ordinò di rifiutare quasi tutte le richieste. «In quello che tutti considererebbero un momento delicato nella carriera di un’attrice, ho compiuto uno sforzo, in piena coscienza: non apparire sulla stampa o fare pubblicità per dieci anni. E ne è valsa la pena proprio per le ragioni che desideravo», ha detto. «Mi ha permesso di mantenere il mistero su chi fossi e poi, nei ruoli che ho interpretato, ho potuto portare il pubblico in posti dove un’attrice che faceva vendere orologi, profumi e giornali non sarebbe mai riuscita».

hollywood, california   june 06 l r frances mcdormand and joel coen attend the 47th afi life achievement award honoring denzel washington at dolby theatre on june 06, 2019 in hollywood, california photo by michael kovacgetty images for afipinterest
Michael Kovac//Getty Images
Frances McDormand insieme a Joel Cohen al 47° AFI Life Achievement Award nel 2019. La coppia si è sposata nel 1984 e nel 1995 ha adottato Pedro, un bambino del Paraguay che allora aveva 6 mesi.

Per lei, Nomadland è il culmine di quello sforzo per restare incontaminata agli occhi del pubblico. «È per questo che funziona», ha spiegato. «Ecco perché Chloé ha potuto pensare di girare questo film con me: è grazie a ciò che ho creato per anni, non solo come attrice, ma nella vita privata». Finita la nostra intervista, abbiamo attraversato di nuovo la città a piedi e, mentre salivamo una collina coperta di vegetazione rigogliosa e alberi di eucalipto, McDormand ha posto l’ultimo limite: «Adesso supero casa mia, poi la saluto». Mi ha chiesto se avessi programmi per cena e mi ha indicato il chiosco di una fattoria dove avrei potuto fermarmi sulla via del ritorno. «Hanno dolcetti deliziosi e della buona, vecchia rucola, ma al momento non ci sono uova perché è freddo per le galline».

Mentre McDormand mi dava consigli davanti al tronco caduto di un eucalipto, avrei potuto giurare di parlare con Fern, che è pratica e indipendente. Mi ha rammentato una storia che mi aveva raccontato poco prima: non molto tempo fa, in occasione della prima di Nomadland a Pasadena, in California - organizzata nei drive-in - McDormand aveva deciso di tirare fuori dal deposito il van usato per il film. Pensava che sarebbe stato divertente stare seduta lì dentro durante la proiezione, ma quando si è trovata di fronte al pullmino, che aveva affettuosamente battezzato Vanguard, è rimasta sopraffatta. Lo aveva considerato «la vita interiore di Fern, quindi la mia», ha detto, e vedere Vanguard così sporco e pieno di cose da buttare era inaccettabile. Un’ora e mezza più tardi, Coen l’aveva trovata sudata fradicia, che stava ancora pulendo il van, e non aveva nessuna intenzione di smettere: «Non ci riuscivo!». Perché non è mai facile voltare pagina quando hai realizzato qualcosa in cui hai messo tanto di te. Prima di separarci, le ho fatto un’ultima domanda: come si fosse sentita subito dopo aver girato Nomadland. Ridendo, ha risposto: «Siamo nel dopo? Io non lo so!». Ha infilato le mani nella tasca del piumino ed è sparita nella macchia di eucalipti, portando con sé Fern.

© The New York Times