Se le vite di tutti noi e la cronaca sono state praticamente monopolizzate dalla pandemia di Covid-19, l’elaborazione di questo periodo pandemico ormai parte della Storia è appena iniziata e ci accompagnerà per chissà quanto tempo. Tra i vari strumenti di analisi, l’arte è sicuramente uno dei più generosi, sorprendenti e caldi. È un termometro che misura quello che accade e lo traduce in intuizioni che sono anche una piccola cura, sono in qualche modo terapeutiche. Come Once Upon a time in 2020, prima personale di Fabrizio Spucches, 100 foto, un video e un libro da vedere fino al 16 maggio allo Scalo Lambrate, nuovo e bellissimo spazio milanese. Un percorso espositivo diviso in 4 sezioni che corrispondono a 4 punti di vista, perché, come scrive Oliviero Toscani nella presentazione della mostraSpucches ha capito che per essere un vero artista dell’immagine - e lui lo è sia per la fotografia che per il video - devi avere un punto di vista e un’opinione del mondo, devi saper analizzare e criticare le cose e gli eventi che ci circondano, ha capito che creare immagini non è un’attività estetica e autocompiacente, ma deve essere un’analisi sociopolitica della condizione umana”. Nato a Catania nel 1987, Fabrizio Spucches ha studiato all’University for the Creative Arts di Canterbury e ha collaborato per molti anni proprio con Toscani, prima di fondare il proprio studio e diventare direttore creativo per molti marchi oltre che regista e fotografo di campagne e progetti editoriali. Ha strutturato Once Upon a Time in 2020 in due sezioni dedicate a quello che è stato sotto gli occhi di tutti, ma che spesso non abbiamo voluto vedere: dai rappresentanti più nascosti della classe lavoratrice al divario cresciuto a dismisura tra ricchi e poveri. E due sezioni iconiche: una serie di ritratti surreali, una sorta di allegoria della pandemia e una galleria di naturisti con mascherina, perché la pandemia limita e impatta qualsiasi tipo di libertà.

Questa è una immaginepinterest
Fabrizio Spucches

Come è nato questo progetto, da dove hai iniziato?
È nato per necessità, perché a un certo punto quando è arrivata la pandemia così all’improvviso a inizio marzo, ho sentito l’esigenza impellente di documentare. Lavorando con il mezzo fotografico ed essendo all’inizio l’unico soggetto disponibile, ho iniziato con un autoritratto. Poi poco a poco ho continuato ritraendo la mia compagna, i miei vicini di casa e in seguito sono andato in giro fotografando con tutte le precauzioni persone comuni nei supermercati, food raiser, edicolanti, escort, senza tetto, preti, taxisti, gigolò, necrofori, sex workers, trans, sinti, volontari della Croce Bianca, una mistress che ha passato il primo lockdown con un cliente. Ho iniziato tardi nella fotografia, ho uno studio di comunicazione, forse non avevo tempo prima, ero impegnato in altro. La pandemia mi ha messo davanti alla condizione giusta per liberarmi di dubbi e insicurezze e mi ha spinto a fare quello che mi piace veramente. Penso che se non ci fosse stata la fotografia, sarei ora in una clinica psichiatrica (ride).

Questa parte della mostra si intitola Working Class Virus: sono ritratti ambientati a Milano, un video proiettato e un libro consultabile in mostra che raccoglie tutte le foto di questa sezione nata per prima. Una carrellata di umanità che è come un random shuffle in cui tutti sono inclusi con uguali diritti, tutti benvenuti e trattati con la stessa cura e gentilezza dall’obiettivo di Spucches, che fa come l’appello per sincerarsi di non aver dimenticato nessuno. Sono “fotografie che ti portano via il cuore, che ti riempiono di commozione, ma riescono a restare stoicamente episodiche”, scrive Denis Curti nella prefazione del volume da lui curato e pubblicato da Il Randagio Edizioni.

Perché hai proseguito con immagini completamente diverse, che chiami cartoline?
Terminato il primo lockdown, ho sentito l’esigenza di fare un altro tipo di fotografia, più iconica anche più internazionale vista la diffusione della pandemia. Ho realizzato la foto di un uomo su fondo azzurro che ha il segno dell’abbronzatura da mascherina e da lì è nata una serie per raccontare in maniera simbolica e anche ironica quello che stavamo vivendo e che andava di pari passo con i fatti di cronaca. Sono 16 personaggi su fondo azzurro e ognuno è un’allegoria di qualcosa: un culturista con un mega sorriso che tiene in mano l’Amuchina come un trofeo - sembra un supereroe dei fumetti - perché all’inizio trovarla era un miracolo; un tifoso che piange la morte di Maradona; un cane stremato dalle molte passeggiate, la scusa migliore per uscire il più possibile di casa; una figura con la maschera di Trump che fa il segno di vittoria, quando l’allora presidente sperava ancora di essere rieletto; un Babbo Natale che sembra deceduto, etc… Come ultima fotografia, l’arrivo del vaccino, senza schierarsi a favore o contro. Once Upon a Time in 2020 è il nome di questa serie e mi sembrava potesse essere il titolo giusto anche per l'intera mostra. Questi personaggi sono surreali, oserei dire che sono quasi felliniani (adoro Fellini, è uno dei miei punti di riferimento assieme a Toscani), sono presi dalla normalità e diventano dei simboli. Ho estrapolato dalla normalità, alla fine non ho inventato nulla, ho preso e decontestualizzato. È la conseguenza di ciò che ho visto, di ciò che accade. Come diceva Fellini, non c’è differenza tra realtà e finzione, il vero realista è il visionario. Ho immaginato queste foto come delle cartoline da spedire per il futuro, per ricordare tutto quello che è accaduto in un anno eccezionale che ha segnato per sempre un prima e un dopo. Per cartoline intendo foto immediatamente comprensibili, in cui togliere tutto e lasciare l’essenziale, il fondo azzurro e il soggetto. Foto che possono essere efficaci in un manifesto pubblicitario di 6 metri x 3 per strada quando passi velocemente in macchina, ma che funzionano anche come calamite da mettere sul frigo. Le ho fatte realizzare realmente e sono appese nella mia cucina. Le cartoline uniscono arte e pubblicità: d’altronde lavoro in questo campo e ho fatto scuola con il mio maestro Oliviero Toscani e chi meglio di lui è riuscito a sfruttare questo connubio e a unirlo anche alla cronaca? Toscani è una specie di Duchamp della fotografia, ha preso immagini di cronaca e le ha decontestualizzate in ambito pubblicitario. L’amore per il contrasto mi appartiene profondamente, mi piace lavorare con gli opposti. È una mia caratteristica, dare la stessa dignità al sacro al profano, all’alto e al basso, al kitsch e al raffinato.

Questa è una immaginepinterest
Fabrizio Spucches

Cosa ti ha spinto a mettere a confronto le condizioni dei ricchi rispetto alle persone meno abbienti?
Con la seconda ondata di lockdwon lo scorso ottobre c’era esasperazione nell’aria e sentivo la volontà di entrare dentro gli sguardi, dentro l’intimità delle persone con dei ritratti ravvicinati su fondo bianco. Sono sceso per strada con un piccolo fondale portatile e man mano che andavo avanti, mi rendevo conto che incontravo molta gente “normale”, ogni tanto qualche senzatetto e alcuni veramente benestanti. Li ho intervistati e mi sono reso conto che i molto ricchi e i molto poveri avevano un approccio diverso nei confronti del problema, che è in qualche modo simile. I ricchi sono così benestanti che alla fine sopravviveranno bene, non hanno problemi economici, si possono curare, sono tranquilli. Le persone in estrema indigenza in realtà fanno i conti con problemi ben più gravi, già vivono per strada, la pandemia è un altro dei mille problemi che hanno. Ho deciso di fare una serie di sessioni in via Montenapoleone e alla mensa Pane Quotidiano. Quando abbiamo messo assieme i 50 ritratti di ricchi e poveri come in una scacchiera, è stata una sorpresa. Nicolas Ballario, il curatore della mostra, è stato il primo a notare che tra i due opposti c’era un’affinità anche negli sguardi, quasi una presunzione di dire chissenefrega. Nella presunzione degli sguardi dei ricchi (definiti “fastidiosamente vispi” dal curatore) ho notato che però c’era comunque un minimo timore, la paura di morire, mentre in quelli dei poveri no. Hanno sofferto così tanto che dalle interviste che ho fatto la morte emerge spesso quasi come un desiderio più che un timore.

Com'è nata la serie di nudi?
Questa parte del progetto è nata perché ero uscito di casa per sbaglio senza mascherina, penso che sia capitato a tutti almeno una volta. Ho deciso di non tornare a prenderla e sperimentare quello che accadeva: un forte senso di imbarazzo e di vergogna, la gente ti evita, ti guarda male, ti rimprovera, avevo timore di essere multato. Ho pensato che essere senza mascherina fosse diventato un nuovo tabù e che uscire vestiti ma privi di protezione è forse peggio di uscire nudi con la mascherina. Ho contattato chi vive la nudità per scelta, i naturisti, e ho capito che loro, che si spogliano per essere liberi, ora vivono un compromesso. Li ho fotografati in bianco e nero con un atteggiamento rassegnato perché malgrado siano senza vestiti, devono comunque indossare la mascherina e anche questo è un contrasto, tra libertà e costrizione. La pandemia ha creato nuove forme di nudità, sia per i naturisti che per tutti quanti. Di contrasti è intessuto anche il video in mostra: 5 minuti in cui scorrono e parlano i protagonisti delle foto di Working Class Virus in un montaggio concitato. Ognuno racconta il suo pezzo di verità e tutte si fondono assieme senza soluzione di continuità, in un flusso di coscienza polifonico e dolcemente stordente. Termina con un crescendo in cui le voci più disparate parlano della morte, con un significato che va al di là delle statistiche e dei bollettini che ci accompagnano ogni giorno.

Più che il nudo, sembra la morte l’ultimo tabù rimasto…
La pandemia ci ha buttato in faccia questa domanda, che di solito tutti evitiamo, posticipiamo, oppure ci rassegniamo, o ci affidiamo a una fede religiosa. Ci ha costretto a fare i conti con questo problema che a mio parere è il problema. C’è una scena del film Uccellacci e Uccellini di Pasolini in cui Ninetto Davoli parla a passeggio con Totò e gli chiede con curiosità candida: “Ma secondo te quando facciamo quell’ultimo respiro, che cosa succede? Dove andiamo?”. Io sono un piccolo Ninetto Davoli e forse lo siamo un po’ tutti. La pandemia un po’ ci ricorda la nostra condizione umana e credo sia giusto che tutti noi un po’ ne accettiamo il mistero e che non diventi un tabù. E che sia un’occasione per vivere.

Questa è una immaginepinterest
Fabrizio Spucches

La locandina della mostra è un’immagine diversa da tutte le altre, come mai?
La mostra è stata inaugurata il 28 febbraio, a un anno dall’inizio della pandemia ed è rimasta aperta solo un giorno perché poi siamo entrati in zona rossa. In un certo senso anche le foto hanno vissuto il lockdown e durante questo periodo ho meditato su quello che avevo fatto e ho creato un’ultima immagine della mostra che rappresentasse il tutto. Una sorta di divinità irreale fatta dei colori della nostra epoca, rosso, arancione e giallo, sembra un semaforo che non diventa mai verde. In testa e in bocca ha mascherine degli stessi colori e fili che le escono dal naso e dalle orecchie. È come una figura mitologica, una Medusa contemporanea che pietrifica con lo sguardo, ma oltre a essere carnefice è anche vittima, è qualcosa che noi non abbiamo scelto e che è lì e ci governa.

A proposito di sguardi, perché tutte le persone che hai fotografato guardano in camera?
Ti ricordi il tuo primo bacio? Vorrei ricreare l’emozione di questo contatto negli occhi della gente che fotografo, se il soggetto non ti guardasse o fosse di spalle sarebbe una rinuncia. Gli occhi sono il canale di trasmissione tra il soggetto e me e poi tra il soggetto e il pubblico. Pensa se le mascherine coprissero lo sguardo, per fortuna possiamo continuare a guardarci negli occhi!

Qual è l’incontro che ti ha colpito di più dal punto di vista umano durante questo progetto?
È stata un’esperienza bellissima, ma se devo citare una persona in particolare, è la mia vicina di casa Marisa di quasi 80 anni. Per 6 anni ho abitato in un condominio in cui avevo il classico rapporto milanese con i vicini che si fermava al saluto. Grazie a questo progetto ho instaurato una relazione più profonda, in particolare proprio con lei che era la mia dirimpettaia. L’ho fotografata 3 volte, anche nella sezione dei naturisti. Quando le ho fatto l’intervista, mi ha detto: “Per me la vita non ha senso, dovrebbe avere un senso, ma per me non ce l’ha”. Ho fatto il giro di tutta Milano e questa risposta l’ho trovata sul mio pianerottolo, bastava bussare lì. È diventata una vera amica e ci sentiamo spessissimo. È stata la mia musa ispiratrice.

Questa è una immaginepinterest
Fabrizio Spucches

Qual è la cosa più importante che ti ha insegnato Oliviero Toscani?
Semplicemente a chiedermi perché, a farmi questa domanda. Sempre, nel lavoro come nella vita.

Dopo aver terminato questo progetto, che cosa hai scoperto?
Che mi sono messo nei guai, non posso fare più a meno di questa ricerca, devo proprio continuare questo percorso. Ora sto portando avanti un lavoro che avevo iniziato prima della pandemia, 90/All You Can Eat. La 90 è un mezzo pubblico che percorre la circonvallazione esterna di Milano, gira giorno e notte, è un filobus quasi magico che non si ferma mai, è una metafora della vita e a bordo puoi trovare chiunque. Io fotografo, filmo e intervisto. Mi interessa indagare qualsiasi punto di vista, c’è sempre posto, c’è spazio per tutti. Posso avere un senso critico, ma non pregiudizi, nel momento in cui ho pregiudizio, impongo un limite nel lavoro che faccio. Devo essere assolutamente aperto a qualsiasi possibilità. Per sentirmi vivo ho bisogno di portare avanti questa ricerca, con la consapevolezza di non arrivare mai ad avere una risposta assoluta: nel momento in cui faccio domande - sia per Working Class Virus come per il progetto sulla 90 - nel momento in cui ascolto, entro in una specie di “sospensione dell’incredulità”, si chiama così nel linguaggio cinematografico. Firmo un contratto con la persona che intervisto, credo a tutto quello che dice e in quel momento sono sereno, sono tranquillo, sento di aver temporaneamente soddisfatto il mio desiderio di ricerca. Mettendo insieme tutti i punti di vista, ne nascono terzi ancora diversi e questo è molto divertente, è la cosa che mi fa andare avanti, mi fa stare bene, mi fa accettare il compromesso di questa vita che abbiamo tutti.

Once Upon a Time in 2020 di Fabrizio Spucches, fino al 16 maggio allo spazio espositivo Scalo Lambrate, via Pietro Andrea Saccardo 12, Milano.
Mostra a cura di Nicolas Ballario, con la direzione artistica di Umberto Cofini. Le immagini in mostra saranno anche acquistabili presso la Galleria STILL fotografia.

Questa è una immaginepinterest
Courtesy Photo