“New York è molto “piccola”; è facile. A Londra, devi impiegare un’ora se vuoi andare da un capo all’altro della città. Qui puoi camminare ovunque. Non vedo l’ora di avere una bici.” Entusiasta e decisamente “green” è la dichiarazione di Jessica Morgan al New York Times, che le chiede delle sue abitudini quotidiane e del suo rapporto con la città. Si, perché la curatrice, originaria di Londra, a partire dal 2015 è stata adottata dalla Grande Mela. La causa? Un incarico prestigioso - oltre a essere una sfida eccitante - quello di dirigere la DIA Art Foundation, nota in America come “il museo senza fissa dimora”.

New York City, United States of Americapinterest
Bruno PEROUSSE//Getty Images

La Dia Art Foundation fu fondata nel 1974 per supportare le opere di una cerchia ristretta di artisti che in quel momento stava scardinando le vecchie regole del “gioco”. La stessa parola “Dia” è mutuata dal greco e significa “attraverso”, testimoniando la volontà di creare coesione che anima l’istituto. Tra i lavori memorabili realizzati si ricorda Spiral Jetty di Robert Smithson, opera ambientale -appartenente alla corrente della Land Art- collocata nel Salt Lake e visibile solo nei periodi di bassa marea. Ma ci sono anche l’edificio di Bridgehampton (New York), trasformato dal 1983 in un’installazione permanente dal neon-artist Dan Flavin, e ancora The Lightning Field di Walter Da Maria, con cui l’artista nel 1977 aveva disseminato 400 parafulmini in un’area desertica del New Mexico, trasformandola in un enorme campo magnetico, uno spettacolo creato dalla natura stessa. Le opere, di dimensioni monumentali o inamovibili dai loro luoghi di creazione, hanno avuto la meglio sul tradizionale concetto di “museo” con una sede fissa delimitata da muri.

Spiral Jetty by Robert Smithsonpinterest
George Steinmetz//Getty Images

In quarant’anni di attività, la DIA Foundation ha ampliato i suoi interventi, creando una rete di artisti e opere dislocate sul territorio. Ad oggi la partita è ancora aperta: molti milioni furono stanziati nel 2015 per costruire a Chelsea un nuovo spazio, come avrebbe voluto l’ex direttore Philippe Vergne. Ma Jessica Morgan, appena subentrata, ha dichiarato che uno dei suoi obiettivi sarebbe stato quello di migliorare gli spazi già esistenti, piuttosto che crearne di nuovi. Una sterzata inaspettata ma decisa, che ha segnato fin dagli esordi il nuovo stampo direzionale.

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Così, sotto la sua supervisione, sono previsti il restauro, la ristrutturazione e l’espansione dei due principali spazi di Chelsea e Beacon, in parallelo allo sviluppo di una rinnovata programmazione didattica e museale.

“È stata una totale rivelazione quando ho capito che la Dia aveva la sua principale sede a Chelsea, il desiderio di avere maggior influenza in città e budget per nuove acquisizioni.” racconta in un’intervista a Vogue “Ho capito che sia Beacon che tutti gli altri spazi a Manhattan potevano essere riattivati e che la Dia poteva diventare un’istituzione molto più attiva, dinamica e lungimirante. È a quel punto che ho capito di essere davvero interessata.”

Appena cominciato il suo nuovo incarico, Jessica Morgan ha passato in rassegna l’intera istituzione, notando che nel tempo la sua struttura era stata proiettata verso una visione maschile (anzi, tendenzialmente maschilista): solo un esiguo numero di artiste (tra l’altro del calibro di Agnes Martin o Hanne Darboven) era incluso nella collezione permanente. La nuova direttrice, focalizzandosi su staff, mostre e acquisizioni, ha apportato delle modifiche ripristinando un equilibrio di genere all’interno della fondazione. Ha costituito un team curatoriale interamente al femminile, a partire dalla direttrice artistica Courtney J. Martin, specializzata negli anni Sessanta e la curatrice associata Alexis Lowry, esperta di Land Art.

Forse tutta la determinazione con cui dirige la Dia Foundation proviene da lontano, dal carattere ribelle che l’ha distinta fin da quando era una teenager: “A Londra, è molto facile essere selvaggi, in particolare quando i tuoi genitori sono divorziati e nessuno ti sorveglia”. Più piccola di due sorelle, è figlia di un’insegnante di origine Irlandese e di un avvocato gallese appassionato di jazz. Espulsa dalla prima scuola di Londra a causa di una serie di atti vandalici, viene poi accolta alla Westminster: sembra ormai un caso perso, quando incontra l’insegnante che le causa un colpo di fulmine per la storia dell’arte: “Faceva sembrare la scuola un affascinante luogo delle idee” racconta ancora a Vogue.

Oggi è una donna inarrestabile e mattiniera, che comincia la giornata alle 6 del mattino assumendo generose dosi di caffè mentre scrive mail freneticamente e pianifica programmi anche per i giorni a venire. Il prossimo passo? Portare a buon fine l’importante doppia apertura, fissata per il 15 settembre 2018, delle mostre personali di Blinky Palermo, pittore astrattista che negli anni Cinquanta fece successo in America per la sua cifra “minimal”. Nancy Holt invece, ha esordito assieme ai primi Land Artist. Il legame con l’istituzione è consolidato già da tempo, precisamente dal 1973: in quest’anno, la collaborazione tra l’artista e la Dia, ha permesso di installare Sun Tunnels nel deserto dello Utah.

L’opera consiste in quattro cilindri, posizionati in modo da formare una croce aperta che incornicia il sole durante i solstizi d’estate e di inverno. La mostra raccoglierà il suo lavoro cinquantennale tra arte e architettura, e sarà un omaggio all’artista da poco scomparsa e alla sua trasognante poetica.