È solo Alfonso Cuarón di fronte al suo ultimo film, non ci sono le stelle di Hollywood, non c’è il sorriso triste di Clive Owens ne I Figli degli uomini né gli effetti speciali delle navi spaziali di Gravity e neppure la fotografia del fedelissimo Alejandro Lubezki. C’è solo la sua città, Città del Messico, e i suoi ricordi d’infanzia. Corale, aperto e anti-narrativo Roma di Alfonso Cuarón è sicuramente il progetto più ambizioso del regista messicano, che ne firma sceneggiatura, fotografia e montaggio. Due ore girate in un plumbeo bianco e nero dove si mescolano suggestioni cinefile, neorealismo in chiave latinoamericana, politica e autobiografia.

instagramView full post on Instagram


In Roma di Alfonso Cuarón il ritratto intimo e poetico di una famiglia, tra il 1970 e il 1971, viene raccontato attraverso lo sguardo di una giovane domestica, Cleo, che deve lottare per la sua sopravvivenza in un contesto ostile alla sua provenienza indigena e al suo ceto sociale. Giorno dopo giorno, come in un giallo in slow motion, lo spettatore scopre così le vite di Sofia, la padrona di casa, e dei suoi figli. In un continuo crescendo narrativo - che a una prima metà maggiormente contemplativa fa succedere una seconda parte ricca di avvenimenti drammatici - Roma racconta l’avvicinarsi di Cleo e Sofia, il rompersi delle barriere sociali a favore di una solidarietà femminile, contraddittoria ma profonda. Inquadratura dopo inquadratura, Cuarón costruisce un grande tributo alle donne, alla loro capacità di sopravvivere in un mondo crudele e barbarico, di riuscire a occuparsi dei loro figli - in alcuni casi, letteralmente, a salvarli - di lavorare e costruirsi un domani mentre il mondo attorno cerca, in ogni modo, di schiacciarle attraverso la violenza fisica o la costrizione sociale.

Roma Photocall - 75th Venice Film Festivalpinterest
Daniele Venturelli//Getty Images

Per lo spettatore internazionale sarà difficile ricostruire alcuni episodi storici che vengono raccontati, come la costituzione delle milizie paramilitari dei Falconi, la strage di Corpus Christi o l’elezione di Luis Echeverría a Presidente della Repubblica, ma, a differenza di un film civile, Roma di Alfonso Cuarón usa la storia maiuscola - dei libri e dei presidenti - per offrire profondità alla storia minuscola di due donne e della loro emancipazione vissuta, giorno dopo giorno, come un’epica guerra quotidiana. Con Roma Cuarón rompe qualsiasi stereotipo che vuole la via degli studios hollywoodiani come una strada senza ritorno. A diciassette anni da quel Y tu mama también, che lanciò nell’Olimpo le carriere di Gael García Bernal e Diego Luna, il cineasta messicano ritorna a un cinema marcatamente personale e autoriale, costruendo un film che è sì molto difficile - probabilmente molti, su Netflix, lo abbandoneranno prima della fine - ma che non perde la bussola del pubblico, ricercando un equilibrio tra immagine e racconto, tra empatia e denuncia, tra sperimentazione e universalità.

Dopo anni di grandi produzioni (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, I figli degli uomini, Gravity) Alfonso Cuarón oggi riutilizza i mezzi dei blockbuster al servizio di storie intime e quotidiane. Il sound design in Dolby Atmos, normalmente usato solo per i franchise Marvel e Disney, diventa in Roma lo strumento per catturare il caos della grande capitale, restituendo la tridimensionalità dell’esperienza umana, fatta di chiacchiere sovrapposte, suoni domestici e rumori di strada. La Roma, una delle tante colonias che costituisce Città del Messico (nulla c’entrano con il titolo il film di Fellini o la capitale italiana), diventa la chiave di volta dell’intero film. Situata tra il centro - zona popolare - e i quartieri borghesi, la Roma è punto di incontro tra ceti sociali diversissimi, meta letteraria delle passeggiate di Roberto Bolaño e José Emilio Pacheco ma anche zona di case popolari e veciendades. La storia di Cleo e Sofia, come il quartiere che dà il titolo al film, è un labirinto di strade, di avvenimenti drammatici, di contraddizioni, di incontri e di scontri senza ordine e senza gerarchia. Come il cinema e come la vita.