Un palazzo come tanti, nel cuore del quartiere Porta Palazzo, la casbah di Torino con le sue 55 etnie. La culla del più grande mercato multietnico d’Europa. Sulle scale il silenzio è interrotto dal brusio dietro le porte. Da ogni appartamento arrivano voci in lingue diverse che restano confinate all’interno: qui nessuno si conosce davvero. Questo è il luogo che mi ha accolto per quattro anni, uno stabile dove ogni cosa mi è sembrata subito così diversa da diventare famigliare. Una casa. Dove però nessuno sa niente delle vite degli altri. Una matti-na di primavera, scendendo i gradini, ho capi-to che avevo un solo modo per farli incontra-re. Entrare nelle loro abitazioni e fotografarli.

Il primo ad aprirmi la porta, all’interno 19, è Bakary, 58enne senegalese di Dakar. Fa il meccanico. Vive in Italia da 19 anni, 15 passati qui.«Tutti trascorsi lavorando», dice mentre mi invita a dividere il pranzo con lui, nella stessa ciotola calda. Mangiamo insieme un piatto della sua terra, fatto di riso e carne. È un uomo capace di migliorarti la giornata solo con un sorriso, scambiato di fretta sulle scale. Non ci siamo mai par-lati prima. «Amo l’Italia. Quando sono arrivato al lavoro però, insulti come “nero di merda”, “torna al tuo Paese” erano all’ordine del giorno. Tanti ti fanno capire che la differenza di pelle li infastidisce, anche se non te lo dicono in faccia. Come la chiamate voi? Ipocrisia, giusto? Qualche battuta c’è ancora. Ma io non mi sono mai fatto metterei piedi in testa», racconta mentre mi porge una forchetta. È l’esempio di chi alle difficoltà risponde con rispetto e riconoscenza.

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Greta Stella
Bakary, meccanico, è nato a Dakar nel 1960, e vive in Italia da 19 anni. Di Porta Palazzo dice: «amo questa dimensione, non mi pongo il problema di essere diverso».
«Chi non capisce che dobbiamo aprirci, accogliere, non capisce il mondo»

«Il razzismo esiste, eccome. Ma non è naturale. L’abbiamo creato noi. Ci riporta indietro e ci allontana dall’idea che siamo uguali in quanto esseri umani, figli di popoli che si sono mischiati. Da sempre». A terra, accanto alla porta, ci sono delle valigie. È in partenza per l’unica vacanza dell’anno. Ha accumulato le ferie per tornare dalla famiglia.È felice e un po’ malinconico. Quel mese non è mai abbastanza. «Se questo Paese vuole an-dare avanti non può pensarsi come un luogo che non accoglie altre culture. Chi non lo capisce non capisce il mondo». Mi saluta così, con quegli occhi fiduciosi in cui intravedo il segreto della sua felicità: mostrare agli altri che il problema non esiste.

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Ogni casa ha le sue usanze: Bakary si offre di dividere il pranzo, un piatto tipico del Senegal, mangiando dalla stessa ciotola.

È incredibile che non conosca Filomena. Hanno origini lontane nel tempo e nello spazio ma sembrano educati sotto lo stesso tetto. Nata a Ruvo di Puglia in provincia di Bari, 87 anni fa, mi apre la porta all’interno 7. È lei che mi ha spinta a raccontare questo palazzo, di cui conosce ogni cosa: abita qui, nello stesso appartamento, da 56 anni. È arrivata a Torino nel 1962 per seguire il marito operaio alla Fiat. Il suo sguard osicuro nasconde una vita di fatiche. «Abbiam oavuto la casa solo perché la proprietaria conosceva un mio parente che viveva qui dagli anni 50. La gente non si fidava dei meridionali. Ci chiamavano sporchi, ladri e selvaggi. Io però non mi sono mai sentita discriminata. Non mi sono mai chiusa nella mia cultura e nelle mie tradizioni».

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Filomena, casalinga, è nata a Ruvo di Puglia, nel 1931, e abita qui da 56 anni. È l’anima del palazzo. Non è quasi più tornata in Puglia. «Amo questo quartiere. però sento ancora la mancanza della mia famiglia, delle mie sorelle emigrate in Canada»
Negli anni Cinquanta erano i meridionali a non essere accettati. La gente non si fidava di noi»

Si è adattata, perché non poteva fare altrimenti. L’ha fatto per amore, per dovere. Perché una volta era così, e per molti lo è tuttora. Porta Palazzo è stata la sua comunità. «Era come vivere in un piccolo paese. Questo mercato aveva il potere di animare tutte le vie circostanti. Ci si fermava a parlare con tutti. E da tutti avevi qualcosa da imparare», mi spiega mentre guarda affacciata al balcone la via deserta. «Negli anni 80 è diventato un quartiere difficile come la Barriera di Milano. Omicidi, donne violentate, rapine, spaccio. Era invivibile. C’era anche poca vigilanza allora. Era una zona franca. L’immigrazione straniera di quegli anni è stata percepita come un disagio». Un disagio che ancora oggi si sente, ma pare sedato da controlli sporadici e da un’indifferenza generale. «Stendevamo i panni tutte assieme giù in cortile. Ci raccontavamo le nostre giornate, i nostri problemi. Anche se venivamo da parti del mondo diverse, ci sentivamo tutti uguali». Non ha la diffidenza tipica della sua età. «Porta Palazzo mi spinge a parlare con persone diverse da me. Ora chiacchiero più con gli stranieri che con gli italiani. Noi non lo facciamo quasi più».

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Rida, 21 anni, progettista meccanico. Ha lasciato il suo paese, il Marocco, otto anni fa.

Salgo due rampe di scale, interno 14. Mi accoglie Rida, 21 anni, progettista meccanico, nato in Marocco non lontano da Agadir. Vive con la madre e il fratello. Aveva 13 anni quando è arrivato in Italia, dai suoi zii, in un paesino vicino a Brescia. «Parlavo poco italiano. E quando mi prendevano in giro facevo finta di non capire e andavo avanti. Ho addirittura una medaglia della Lega, vinta per una gara di ciclismo», dice ridendo. A Porta Palazzo arriva 6 anni fa: «Per me è il quartiere più bello di Torino. C’è tutto. Da marocchino non potrei chiedere di meglio. Ho la mia comunità e sono a due passi dal centro. È casa mia». Mi confessa che in questo palazzo sono i giovani a non voler comunicare. Ci è riuscito solamente con gli anziani.

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Ogni casa ha le sue usanze. Rida serve il tè con il tradizionale rito marocchino.

«Non capisco questa diffidenza nei ragazzi. Forse siamo troppo confusi e condizionati da anni difficili. E la gente preferisce chiudersi nella propria realtà. Questi quartieri ti proteggono. Molti qui ragionano ancora in dirham, la nostra moneta, perché non hanno il minimo interesse a integrarsi», mi dice mentre si cinge la testa con la tagelmust e indossa il kaftan sopra la camicia bianca che mette ogni giorno per andare al lavoro. Ha gli occhi felici mentre mi versa del tè alla menta. Mi chiedo che cosa starà mai togliendo con quel gesto alla cultura italiana.

Torno giù, e mi dirigo all’appartamento accanto al mio. Secondo piano, interno 11. Classe 1967, Marco è stato grafico, giornalista, cameraman e ora è un artista. Cresciuto ai mercati generali del Lingotto, sa cosa significa vivere in un quartiere multiculturale. «Qui il ghetto esiste, ma non è fisico. È cultura. Il tuo spazio è quello che ti lasciano, è dato da chi in un certo senso ti taglia fuori. E logicamente diventa casa tua, ti protegge. È avvolgente».

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Marco, 51 anni, artista è un viaggiatore, per lavoro e per passione. «Le diversità per me sono naturali e necessarie. Il mio occhio non le vede. ma dobbiamo trovare sempre e per forza il nemico. e lo identifichiamo in chi è differente da noi». .

Poi mi indica una grande cartina appesa sopra il letto. È del 1956. «Guarda com’era l’Africa. Si parlava soprattutto portoghese, inglese e francese. Ma non è questione di colori, è questione di interessi. A chi davvero governa il mondo non conviene che esista una conoscenza diretta, quella che lima i preconcetti e che ci accomuna tutti. Oggi, purtroppo, per comunicare dobbiamo essere mediati».

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Una delle incisioni di Marco, l’inquilino del secondo piano.

Ad aspettarmi all’ultimo piano, interno 20, c’è Giulia, 30 anni. Realizza tessuti nel laboratorio del Museo del Tessile di Chieri, e lavora per un’agenzia che organizza viaggi in Asia. «Qui ho sempre ritrovato un po’ di mondo. Ma il degrado dilagante e la tossicodipendenza mi disturbano. È un disagio diffuso che fa male a tutti. È uno specchio della difficoltà che viviamo». Mentre mi parla continua a lavorare. E in quello che fa vedo la sua grazia: un’esile giovane donna che parla a voce bassa. Prima di bussare non l’avevo mai incontrata sulle scale.

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Giulia, 30 anni, al lavoro sui suoi tessuti, si divide tra l’Asia e Torino.

Diffidente all’inizio, mi ha accolto poi come un’amica. È la più critica di tutti. Mi dice che l’unica associazione per l’integrazione, che sta al piano terra, non ha mai fatto nulla. «Avrebbero dovuto bussare a tutte le nostre porte, presentarsi, invitarci. È il chiaro esempio della nostra ignoranza a riguardo. Creiamo realtà del genere ma non sappiamo cosa significhi comunità. Bisogna iniziare dal piccolo. Neanche dal quartiere, ma dal palazzo, in casa, in famiglia».

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Courtesy Photo
Greta Stella, nata a Pietra Ligure nel 1992, ha vissuto 7 anni a Torino. Ha iniziato a fare foto da piccola con una Pentax del nonno pittore, dalla quale non si separa mai. Fotografa freelance, lavora da 5 anni per l’associazione culturale Giardino Forbito.

Love difference. Per quattro anni ho letto questa frase scritta in tutte le lingue sulla facciata del mercato coperto del quartiere. Un grido di speranza ripetuto così tanto da farmi dubitare che fosse vero. Ma qualcosa mi dice che qui, in questo palazzo, le cose potrebbero cambiare. Mi sembra già di vederli i miei vicini. Allungare la mano e bussare alla porta di fronte.