Ci dividiamo tra innocentisti e colpevolisti. Ma la divisione (per fortuna o sfortuna) non è netta. La bilancia pende molto di più per la condanna. Sotto processo sono i compiti a casa. E con l’imminente riapertura delle scuole l’argomento torna d’attualità, non solo tra gli alunni, ma soprattutto tra insegnanti e famiglie. Forse anche al ministero dell’Istruzione.

In attesa (magari) di qualche “rivoluzione” da prima pagina come quella accaduta a marzo scorso in Francia, dove un gruppo di genitori aveva dichiarato lo sciopero dei compiti a casa (compiti, peraltro, che Oltralpe dovrebbero essere proibiti da una circolare ministeriale del 1956, del tutto disattesa). Una rimostranza che aveva portato l’attuale ministro italiano dell’Istruzione, Francesco Profumo, a sollecitare una revisione dello “studio in cameretta” per limitare i compiti di tipo tradizionale.

Ma allora è proprio vero che questi compiti sono (in)utili? Quale la loro origine o fondatezza? «Altro che inutili, sono dannosi» spiega con fermezza Maurizio Parodi, pedagogo e dirigente scolastico di La Spezia che ha appena finito di scrivere un saggio molto esaustivo dal titolo Basta compiti. Non è così che si impara (Sonda ed., 14 e) nel quale si oppone a una pratica tanto discussa quanto, secondo lui, immotivata. «A scuola si insegna e a casa si impara, lasciando così le competenze strategiche agli studenti. Un paradosso: laddove l’insegnante sarebbe più necessario, questo non c’è. Così i genitori, loro malgrado, sono assurti al ruolo di figura di completamento senza averne competenze specifiche, creando un divario tra chi è più supportato e chi è più svantaggiato. È statisticamente provato che i più meritevoli (salvo l’eccezione!)sono nelle famiglie culturalmente più attrezzate. Sono quelle dove i compiti sono monitorati. Ma gli altri? Le fatiche inutili e indifferenziate sviliscono, sono frustranti e dolorose. La scuola dovrebbe garantire un diritto alla gioia, e invece troppo spesso insegna sì, ma a detestare lo studio e le aule, per altro (visti i pochi fondi) spoglie e grigie. Altro che funzione sociale...».

Parodi è consapevole, però, che la sua posizione è piuttosto elitaria. «La maggior parte dei miei colleghi i compiti li somministra, ma non spiega il perché e non si attrezza per stabilire se l’impegno sia utile e se sia questo il solo modo o il migliore per ottenere i risultati (quali?) attesi. Il loro reale obiettivo non è neppure scritto nell'offerta formativa scolastica, non vi è traccia nei programmi di una definizione puntuale operativa degli obiettivi didattici».

Più neutro il pensiero di Livio Romano, papà di tre figlie, insegnante di inglese in una scuola elementare di Lecce e autore di Diario elementare (Fernandel ed., 14 e), un ironico, divertente ma molto realista viaggio nella scuola italiana che sarà in libreria a metà settembre. «I colleghi li chiamano “il rinforzo”. Non sono del tutto contrario; anche i pedagogisti più progressisti sostengono che gli automatismi di base - mi riferisco per esempio al calcolo mentale, alle tabelline o alle basi della geografia - si debbano acquisire da soli. Ma è certo che nella scuola primaria con il tempo pieno sarebbe meglio evitarli: dopo otto ore di scuola i bambini sono stanchi. Oltretutto a questo super “lavoro” si aggiungono le attività extra su cui insistono i genitori ma alle quali i bambini spesso sono poco interessati. Vedo sulle loro facce espressioni da cupi o dissolvi: si riempie il loro (sacro) tempo libero. Ho un bel dire io alle mie figlie: annoiati che ti fa bene! Sono anacronistico. Comunque sono un sostenitore della giusta misura, ma contrario agli esercizi estivi, un vero incubo per i genitori».

Ma se poi questi ricadono sulle famiglie (o meglio sulle mamme) come la mettiamo? «È proprio così», sostiene Francesca Lebano, mamma di quattro figli, due alle elementari, uno alle medie, la quarta all’asilo. «Se poi lavori, come me, che fai? Ti ritrovi la sera a comprimere mille attività. Non voglio togliere alla scuola il suo ruolo, anzi. L’autorità di un insegnante deve rimanere tale, ma è innegabile che i compiti aggiungono al carico familiare un altro peso. Che quasi sempre ricade sulle mamme. Il quotidiano in famiglia - e lo dico pur avendo un marito assai collaborativo - lo gestisco io, come tante altre donne. E non so se il motivo sia ancora la nostra incapacità di delegare agli uomini o la loro comodità nel trovarsi il piatto pronto. Certo lo stipendio più alto a casa spesso lo portano loro e il part-time lo scegliamo noi, e dunque l’accudimento quotidiano viene riservato alle mamme. Sono io che sto davanti a scuola all’uscita e dunque sono l’interfaccia più comoda per le maestre».

Più forte il parere di Raffaella B., 45 anni, dirigente e madre di 3 figli. «Basta con questa super mamma che deve far tutto. Lavoro tutto il giorno, possibile che la scuola non riesca a capirlo? E poi ci sono l’insegnante di ginnastica, quella di musica... Mai che chiedessero: dov’è il papà? Arrivo a casa e controllo le cartelle, i compiti e, se è necessario, corro in cartoleria per il quaderno che manca. Lo faccio con amore - sono i miei bambini - ma che si smetta di immaginare una mamma chioccia, un’immagine stereotipata e vecchia. Io sono orgogliosa del mio lavoro e voglio che lo siano anche i miei figli».

In gioco dunque c’è il tempo, dei bambini ma anche dei genitori. Troppo spesso delle mamme. «I compiti rubano il tempo ai bambini, e loro, diversamente da qualsiasi altro lavoratore, dopo 8 ore di lavoro hanno anche il surplus a casa e nel weekend», aggiunge Parodi. «La scuola dovrebbe essere spazio di libera aggregazione, ma questa rimane relegata nei corridoi, nei bagni e per i più piccoli negli scuolabus».

«Ci tolgono il weekend, il tempo familiare», spiega Valentina Parma, mamma di due bambini di 11 e 7 anni e professoressa di inglese alle medie. «Quante domeniche ho sacrificato per aiutare il mio primogenito, Vittorio (che ha appena finito la quinta elementare), che di compiti ne ha sempre avuti tanti. Spesso quando mio marito la domenica esce con Francesco (il secondo, che invece ha maestre che ne danno pochi), Vittorio e io ci sediamo al tavolo. Ma quel tempo dedicato a lui si fa spesso delicato e difficile, si creano attriti e si rischia di litigare. Col risultato che lui mi ha detto: “Mamma quando penso a te ti associo ai compiti, ed è bruttissimo”. Da insegnante dico: cerchiamo di valorizzare il tempo della scuola perché così valorizziamo quello libero dei nostri figli e della famiglia».

È dunque un problema di modelli educativi e pedagogici. Quale sia il migliore è quasi impossibile stabilirlo. Lo scrive nel suo ultimo libro Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare (Guanda, 12 euro) Paola Mastrocola. Lei, scrittrice da premio Campiello che insegna da anni in un liceo scientifico della periferia di Torino, sostiene: «Nessuna scuola oggi è migliore o più giusta. E non esistono scelte giuste o sbagliate». I compiti, però, «sono un fatto di buon senso», spiega con l’autorevolezza della sua esperienza. «Pensate se dicessimo a un corridore: non ti preoccupare, riposati, correrai solo il giorno della gara. Sarebbe follia pura. I compiti sono l’allenamento. L’idea moderna che si debba fare tutto a scuola è sbagliata: lì c’è il tempo dell’ascolto, a casa quello della riflessione in solitaria. Il lavoro intellettuale si fa da soli, con rigore. Ma questo dà fastidio». Fastidio? «Sì, si compromette il sacro weekend dove per forza ci si deve divertire, consumare, andare via; i compiti sono fastidiosi. Anche perché li fanno i genitori. Chiedo spesso alle mamme il motivo, e la risposta è sempre la stessa: se non li facciamo insieme o, peggio, noi, lui (lei) non studia. Questa mirabile e discutibile impresa è (forse) dannosa per i figli, sicuramente lo è per le mamme. Per molti genitori l’importante è che il figlio socializzi, si diverta, faccia sport. Una scelta. Ma io, poi, che ci sto a fare? È arrivato il momento di prendersi il rischio che nostro figlio faccia da solo, anche a costo di una bocciatura». Tutto giusto. Ma anche alle elementari dove c’è il tempo pieno? «Forse lì il discorso è diverso. Ma poi, cosa si fa a scuola per tutte quelle ore? Meravigliose - ripeto, meravigliose - attività extra, ma appunto extra. È vero che il tempo pieno aiutale donne a lavorare. Ma la scuola - e questo è un grande problema irrisolto del nostro paese - non può essere la risposta ai problemi sociali, ha dei compiti culturali da rispettare. Sono amareggiata, so che la mia battaglia è già persa. Hanno vinto gli spigliati e gli estroversi, quelli che hanno fatto del computer in classe la loro bandiera, mentre io coltivo le menti nella solitudine e nella concentrazione. E nella fatica mentale. Oggi questo spaventa. Quando vediamo un bimbo in un angolo ci preoccupiamo, chiamiamo lopsicologo: è introverso, non gioca, non socializza... Ma il tempo vuoto, la noia, sono alleati preziosi, aiutano a crescere e a diventare quello che siamo. Come scrivo nel mio libro, forse non si può imporre lo studio come unica strada all’apprendimento, ma vorrei che non fosse squalificato o demonizzato. Vorrei cogliere intorno a me qualche dubbio. Nessuno può sapere come sarà il futuro e quale sia oggi il modo migliore per affrontarlo. Liberiamo i giovani dalle costrizioni, ma liberiamo anche lo studio, ormai braccato da pedagogisti all’ultima moda. Pari dignità? Che ne dite? E poi tutti ai blocchi di partenza e stiamo a vedere chi vince».