La nostra civiltà è il frutto di un'enorme rimozione. È inspiegabile, ma conti­nuiamo a considerarci più vicini agli animali che alle foreste, quando è stata proprio la vita sugli alberi ad averci imposto il pollice opponibile che ha portato all’evoluzione della nostra specie. È per restare fedeli a giardini e ad alcuni alberi da frutto che abbiamo scoperto la vita sedentaria e inventato la città: una relazione allo spazio molto più vicina al mondo vegetale rispetto a quella della maggioranza degli animali.

Sono le foreste ad averci insegnato il senso di un tempo che non si cancella con la morte e che è un fatto collettivo e non individuale. Nonostante questo, per secoli abbiamo costruito città interamente minerali, fatte di pietra, sabbia, vetro e metallo, respingendo al di fuori tutto quello che era vivente. La foresta (dal latino foris, all’esterno) era il risultato di questo esilio volontario. Sono gli alberi e le foreste, soprattutto, che ci hanno insegnato e hanno reso possibile quello di cui andiamo più fieri: la tecnica.

Parliamo spesso di Paleolitico e di Neolitico e misuriamo le origini della tecnica a partire dai reperti di manipolazione di minerali che riusciamo a trovare. Ma prima di lavorare la pietra abbiamo manipolato e modificato il corpo delle foreste: il legno. Il fatto che simili artefatti non si conservino non dimostra la loro inesistenza. La volontà di ridurre tutto alla pietra, di dimenticare che la foresta è all’origine dei nostri corpi, delle città, della tecnica, è una forma di stupido orgoglio. È più facile illudersi di essere soli davanti a un mondo infinitamente appropriabile.

Senza di loro non potremmo vivere. Ma lo dimentichiamo, in nome di una storia che esalta le pietre.

La passione minerale dell’uomo è una guerra diretta al mondo vegetale. Una foresta, in effetti, è l’esatto contrario della pietra: un albero, una pianta, non è che luce solare catturata e immagazzinata nel corpo minerale della Terra. L’uomo invece sembra la grande Medusa del pianeta: colui che trasforma spazi viventi in spazi minerali. E la rimozione della foresta a vantaggio della pietra non è senza conseguenze e la furia minerale dell’uomo non può che portare alla desertificazione del pianeta.

Per fermare il deserto, per vincere l’ossessione della nostra civiltà è necessario tornare alle foreste. Ci insegnano, per esempio, che la vita non si costruisce attraverso la guerra di tutti contro tutti, né attraverso la competizione universale ma solo attraverso una simbiosi. Le piante ci insegnano che ogni essere vivente vive ed è nella vita degli altri. Non è mai un semplice meccanismo di consumo energetico e di dissipazione, è anche e soprattutto la sua moltiplicazione. La foresta è l’inizio di una nuova politica che potrebbe insegnarci a pensare collettivamente. A differenza di quello che abbiamo ritenuto per secoli, le piante non sono forme di vita senza coscienza, ma pensano, sentono, sono coscienti facendo a meno del cervello e degli organi di senso.

Lo fanno in maniera molto più raffinata, complessa e precisa di quanto lo possa fare un animale. E soprattutto pensano collettivamente in maniera molto più esatta di quello che possano fare gli uomini. Ne Il sussurro del mondo, il romanzo dello scrittore Richard Powers che gli è valso il Premio Pulitzer 2019, l’autore afferma che il mondo vegetale è cosciente, seppure in maniera diversa dall’uomo: «Le piante sono creature caparbie e abili e alla ricerca di qualcosa, proprio come le persone». Contribuisce così al dibattito che in Italia è stato sollevato anche dagli studi di Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio internazionale di Neurobiologia vegetale (e autore di L’incredibile viaggio delle piante e La nazione delle piante), e negli Stati Uniti da Anthony Trewavas, biologo noto per le sue ricerche nel campo della fisiologia vegetale e del comportamento delle piante. Scienziati e pensatori ci hanno messo di fronte a un paradosso: per capire cos’è la coscienza non è necessario studiare il cervello (umano o animale) ma osservare un albero. La foresta è molto più importante delle neuroscienze.

I boschi sono il corrispettivo non-umano della rete digitale. Pensano collettivamente.


Non significa tornare al passato e rimpiangere uno stato premoderno. Al contrario, è necessario pensare la città come fatto forestale, e la foresta un luogo in cui gli alberi coesistono e pensano insieme, come un fatto urbano. È quello che già nei Sessanta avevano suggerito due architetti italiani, Cesare Leonardi e Franca Stagi: invece di studiare il costruito, il cemento, le pietre, questa coppia passò più di vent’anni a studiare alberi come realtà architettoniche. Costruire, fare l’architetto, significa occuparsi di foreste, per arrivare alla conclusione che le città sono le istituzioni che associano uomini ad alberi.

Nei prossimi trent’anni la maggioranza della popolazione mondiale abiterà in una manciata di megalopoli, che produrranno da sole la maggioranza del Pil globale. Saranno anche poli di consumo di energia maggiore. Il compito politico che ci aspetta non può essere solo quello di preservare le foreste esistenti. Bisogna trasformare queste megalopoli in nuove foreste. Foreste urbane e abitate, ma foreste.

Ma è anche necessaria una rivoluzione fisica: bisogna piantare alberi dappertutto. È necessario restituire luce al corpo minerale delle città. Il numero di alberi dovrebbe superare il numero degli abitanti e ciascuno dei cittadini dovrebbe vedersi attribuita la cura di almeno due alberi di cui essere giuridicamente responsabili. Queste foreste saranno il corrispettivo non-umano della rete digitale: una grande rete biologica che allontana il deserto che l’incantesimo delle pietre ci ha costretti a diffondere ovunque. Se vinceremo questa sfida, nel mondo futuro non ci sarà più opposizione tra l’urbano e la campagna, il moderno e il rurale. Ci saranno solo foreste: foreste urbane abitate, foreste agricole a uso alimentare, foreste non abitate da uomini.

La foto in apertura è di foto di Ellie Davies della serie Stars, rivolta a visualizzare i link tra il cosmo e la Natura, sovrapponendo foto di galassie e di pianeti a quelle di boschi e foreste durante la notte. Gli alberi come simboli di un regno vegetale che contiene il respiro del mondo. «Non c’è nulla di più fotogenico della Natura», spiega la fotografa inglese, «ma la gente si limita a osservarla con uno sguardo che definisco “turistico”. Mentre è potente, forte e talvolta anche misteriosa ed esoterica».