I racconti della scrittrice Lucia Berlin, americana scoperta e subito amata dal grande pubblico soltanto nel 2015, un decennio dopo la morte, sono l’esperienza di lettura più simile al sentirsi amati. Anche se in gran parte autobiografiche, le storie raccolte in La donna che scriveva racconti e Sera in paradiso non svelano però un mistero: cosa pensasse della propria vita la bellissima, sempre precaria, madre single di quattro maschi in adorazione, una donna spaventosamente umana, la nomade dagli occhi blu Lucia, nata Brown. Di rispondere s’incarica ora un volume di memorie, lettere e fotografie intime curato dal figlio Jeff, Welcome Home. Queste testimonianze che coprono gli anni dalla nascita nel 1936 in Alaska al 1965, sufficienti per tre matrimoni falliti, un primo figlio a 19 anni, il secondo a 20, miserie finanziarie alternate a fortune sentimentali, almeno trentatré traslochi su e giù per le Americhe, descrivono un’esistenza in cui si vorrebbe un posto, così da avere un giorno un passato come il suo, per cui si prova una nostalgia privata, sensuale.

Avendo lei amato con intensità alti e bassi della vita, capisci perché i suoi racconti contengano un tale surplus di verità e bellezza. Figlia di un ingegnere minerario e di una madre alcolista, si sposta dall’Alaska all’Idaho, al Montana, scende in Texas, Arizona poi trascorre un’adolescenza agiata a Santiago del Cile, studia all’Università del New Mexico dove, diciannovenne, sposa lo scultore Paul Suttman. Lo adora. «Tenevo la parte bollente della tazza e gli porgevo il manico». Lui la costringeva a dormire a faccia in giù per correggere il suo “principale difetto”, il naso all’insù. Due figli in due anni; il marito se ne va e lei incontra il secondo, il pianista jazz Race Newton. Si trasferiscono a New York, Greenwich Village. Povertà assoluta. Lei scrive con i guanti, accanto al forno; allestisce una “stanza” per i figli inchiodando tra loro alcuni quadri vicino al forno per trattenere il calore. Un amante conosciuto in New Mexico, il sassofonista eroinomane Buddy Berlin si presenta con quattro biglietti per Acapulco. Partono, lei divorzia da Race, si risposa e vivrà inseguendo il sassofonista senza lavoro e braccato dagli spacciatori.

Avrà il terzo figlio da sola, mentre Buddy si sta bucando. Restano in Messico, dentro capanne troppo sporche per sedersi, cercando frutti di mare nelle lagune. Tutto si complica. I bambini si ammalano di dengue. Nasce il quarto, Lucia si separa da Buddy: inizia così la seconda parte della vita. Andrà in California, alleverà da sola i quattro figli, diventerà infermiera, donna delle pulizie, centralinista, in lotta con le frasi e il bourbon, dentro e fuori dagli Alcolisti Anonimi: trasferendo illusioni, guai (era nata con una grave scoliosi, negli ultimi anni viveva con l’ausilio della bombola d’ossigeno) e assenza di rimpianti nei suoi racconti. Morì circondata dai figli, lasciando pagine in una lingua jazzata, seria e frivola. Descrive una casa d’infanzia: «Scricchiolii. Echi del vento tra gli alberi, schizzi di pioggia sui vetri. Singhiozzi in bagno». La paura: «Il pensiero di invecchiare non mi crea problemi. Ci sono cose che mi provocano una fitta di dolore, come guardare chi va sui pattini e le lavanderie a gettoni». Diario e lettere aggiungono onestà: «Cos’ho combinato, cazzeggiando a destra e a manca per tutta la vita».

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Courtesy Bollati Boringhieri

Welcome Home il volume di ricordi, lettere e foto di Lucia Berlin è curato da suo figlio Jeff (Bollati Boringhieri, € 20).