Quando lavoravo all’università collaboravo per il professor Girolamo Montani.
Lavorare per Girolamo Montani non era facile, soprattutto perché Girolamo è cieco e quando lavori per una persona ipovedente le naturali barriere sociali che determinano gli spazi civili del vivere quotidiano non le puoi più applicare. Per cui dopo appena due giorni che lo conoscevo mi sono trovata ad aiutarlo a mangiare, a camminare con lui sulla spalla lungo strade senza marciapiede, a doverlo accompagnare nel bagno degli uomini e ad aspettare fuori dalla porta che finisse.
Io che non prendo in braccio nemmeno i neonati per evitare il contatto fisico con un altro essere umano.
Odiavo lavorare per lui. Non perché fosse cieco, ma perché era tutto quello che io non sono.
Ritardatario, supponente, dispotico, testardo, disordinato e spesso inconcludente.
Ma era un uomo di cultura e, come spesso accade, alle persone di cultura si perdonano anche i caratteri grigi e le cattive maniere.

Si era sposato tardi con una donna mite che lo sopportava con devozione inspiegabile. Lui l’amava, questo è certo, ma di un amore verticale che lo poneva un gradino più su. Forse perché, al di là del difetto di fabbrica, le era superiore in tutto: bellezza, intelligenza, rango, tenore economico, titolo di studio, tutto.
Una volta Rita, così si chiamava, mi aveva detto che era sempre stato il suo sogno sposare un uomo alto con gli occhi azzurri.
Gli dei ci puniscono esaudendo i nostri desideri, avevo pensato.
Quando non eravamo all’università per gli esami o le lezioni, Girolamo voleva che stessimo a casa sua. Una casa stretta e lunga in una delle vie più antiche del centro, su per una salita ripida come una montagna e mi ricordo che lui riusciva a parlare e camminare e io invece no, io potevo fare solo una delle due cose, non entrambe. E lui, che era alto due metri e da giovane era stato un atleta diceva: «Su su, pigrona, bisogna spezzare il fiato». «Ma le mie gambe sono un terzo delle sue, professore».
«Anche le gambe della Rita sono corte, ma mica fa tutte queste storie».
E da dietro il braccio di Girolamo spuntava la Rita all’altezza del gomito, sorridente e silenziosa come un filone di pane dentro una sporta.

Vivevano in questa casa alta e stretta nella parte antica della città e mi tenevano lì in ostaggio per giorni. Il tempo nella casa del professore era dilatato come il buio uguale delle sue giornate, senza notti né mattini e si lavorava finché non si lavorava più, finché non si finivano di arrotolare come fili lunghissimi di canne da pesca i discorsi tesi nelle ore inseguendo stimoli e guizzi come pesci di lago.
E capitava di parlare di tutto, dei femminismi cinesi, del sessantotto violento, della pallavolo femminile, degli amori vigliacchi, delle vampate politiche, della madre Europa, della sinistra pigra, delle sfere pubbliche, di Franca Leosini, delle mie fattezze nell’ombra, delle sue pupille sbiadite nell’iride chiaro come una macchia scura in una foto bruciata.
A pranzo scendiamo di sotto per metterci a tavola. Loro sono fissati col green. Quindi è tutto integrale, tutto biologico, tutto sanissimo, tutto freschissimo. Le uova vengono dalle galline dei carcerati, la verdura dall’orto urbano sopra la curva, il pane dal fornaio con i grani più antichi. Anche per fare la pasta usano le pennette rigate integrali che mi fanno uno schifo, perché sembrano il mangiare dei cani e le mando giù con un boccone di pane come fossi un’americana mentre loro dicono: è buona proprio come la pasta normale.
Ma non è vero. Tutti quello che lo sostengono mentono sapendo di mentire.
A tavola siamo io, il professore, Rita, la zia del professore e la badante della zia del professore.
La zia del professore sta per compiere 100 anni. È piccolissima, magrissima, mangia solo passati di verdura e dice solo una parola: G I R O L A M O.
Con lo stesso tono gracchiante e struggente con cui ET diceva: T E L E F O N O C A S A.
Lo dice sempre. A qualsiasi ora. Da qualunque luogo. La sentiamo anche quando siamo nello studio con la porta chiusa e lei sta di sopra, nella sua stanza, con la porta chiusa.

G I R O L A M O.

A volte il professore si arrabbia, alza la voce e intima alla zia di tacere. La zia allora si muta per qualche minuto e poi ricomincia.
La maggior parte delle volte, però, il professore le cerca la mano piccola e ossuta, se la mette in mezzo alla sua che è grande come un guanto da forno e la tiene in custodia per tutto il tempo. A volte vuole imboccarla e succede questa cosa strana che, anche se lui non la vede, la bocca della zia aperta come quella di un uccello, la trova sempre.
Un giorno siamo a tavola, abbiamo finito di pranzare, il tg nazionale si è convertito in quello regionale, la badante ha portato i piatti in cucina e Rita sta aspettando il caffè per concludere il pranzo.
Il professore accarezza la guancia concava della zia e dice: «Un giorno mi piacerebbe scrivere qualcosa sull’affettività degli anziani. Il corpo delle persone anziane è un tabù della nostra cultura. Nessuno li tocca mai. Anche questa è una questione di allenamento, di abitudine. Io che ci vivo da sempre sono abituato. Ma facci caso. Qualcuno li abbraccia mai gli anziani?».

È il 30 marzo 2020.

È il ventesimo giorno di quarantena.
Gli scrittori scrivono memorie come un tempo i soldati dalle trincee di una guerra.
Ma non è una guerra.
Io in quarantena ci sto bene.
Nella mia vita non è cambiato molto.
In quarantena potrei viverci per sempre.
Eppure è da qualche giorno che non faccio altro che pensare a Girolamo Montani.
E che, senza di me, sono 20 giorni che nessuno abbraccia mia nonna.

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Courtesy Bompiani

Giulia Contini (pseudonimo di un'autrice di cui non si conosce l'identità) ha 37 anni, è cresciuta tra il mare e la montagna e vive a Roma da quando di anni ne ha 19. Qualche settimana fa è uscito il suo libro d'esordio, La stanza dei canarini (Bompiani), un romanzo che attraverso la voce di Giulia, la protagonista, ci parla di provincia, amori difficili che stravolgono e illuminano l'esistere, e della fatica di trovare la propria identità.