Aveva anticipato già tutto. Le strade deserte, i supermercati vuoti, i negozi con le saracinesce abbassate. Come se avesse saputo prima degli altri quello che sarebbe accaduto qualche mese più tardi. Jean-Philippe Delhomme non è solo un illustratore satirico con un amore incondizionato per la pittura, ma a quanto pare anche un indovino.

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© Photo: Tanguy Beurdeley / Courtesy of the artist and Perrotin
Jesus Auto Repair, 2019

La Galleria Perrotin nella sede di rue de Turenne, nel cuore del Marais, gli dedica fino al 14 agosto la mostra Los Angeles Language, una serie di cinquanta dipinti dedicati alla città californiana, creati come foto in technicolor. Li ha realizzati tutti nel 2019 e sembrano quasi un reportage dalla pandemia, prima della pandemia. Già, perché i lavori dell’artista francese, che ricordano un po’ quelli di Milton Avery e Fairfield Porter, ci mostrano le cose senza le persone. Le vie di LA, solitamente trafficatissime, sono prive di esseri umani, di movimento, di vita. Come dopo un’apocalisse o un’invasione aliena o una pandemia, appunto.

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Mark Harvey
Firestone, 2018

"La pittura – spiega l’artista, che collabora da tempo con L'Obs, Architectural Digest, The LA Times, The New Yorker, W magazine - è l'opposto di quello che ho fatto per la stampa o i libri. Quando lavoro a una tela, provo a guardare, a mostrare sempre il singolo momento”. Per anni Delhomme ha dipinto quasi di nascosto. Mostrando a pochissimi eletti i quadri firmati all’interno dei suoi atelier di Bushwick, a Brooklyn e Parigi.

Per realizzare Los Angeles Language, Delhomme – che ha iniziato la sua liaison con gli Stati Uniti grazie ad alcune illustrazioni per il negozio Barney, realizzate dal 1993 al 1995 e che rimangono quasi trenta anni dopo attualissimi – ha vissuto due anni a Big Orange. Ha noleggiato un’auto e ha attraversato la metropoli dalla periferia al centro. Santa Monica, Downtown, Bel Air o Hollywood. Le visuali sono infatti tutte dall’abitacolo della sua vettura, in continuo movimento. Si scorgono così i mall senza nessuno attorno, i camper posteggiati a bordo strada, le insegne di McDonald’s, le palme immobili, qualche macchina lungo le highway solitamente congestionate dal traffico. Insomma, un lockdown ante litteram.

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© Photo: Tanguy Beurdeley / Courtesy of the artist and Perrotin
Black car in front of garage, 2019

Eppure sembra tutto così attuale. L’effetto che la California di solito fa a chi la visita per la prima volta è quello di un déjà-vu. Perché nell’immaginario collettivo sono migliaia le immagini che attraverso il cinema ci arrivano da quella fetta di mondo. E’ come se già ne conoscessimo l’atmosfera, gli scorci, quasi gli odori senza averci mai messo piede. Delhomme, nato nel ’59 a Nanterre, ha scelto un altro immaginario. Più artistico, più fotografico. Per questo nei suoi lavori ci sono assaggi di Ed Ruscha, che ha catalogato le sue Twentysix Gasoline Stations e Thirtyfour Parking Lots a Los Angeles negli anni '60 e spruzzi di David Hockney (uno dei suoi pittori preferiti) e del glamour delle sue ville hollywoodiane. Ci sono riferimenti alle costruzioni ritratte da Chris Burden e alle strade immortalate da William Eggleston, Lee Friedlander, Garry Winogrand, Julius Shulman, Robert Frank e lo stesso Dennis Hopper.

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Mark Harvey
White Car, 2018

“Oggi viviamo in un tempo sospeso, congelato – ha raccontato l’artista in una recente intervista – Mi manca viaggiare. Un anno fa sono andato a Tokyo e a Naoshima. Mi manca la Grecia, dove vado molto spesso a dipingere paesaggi. Mi manca anche Londra, dove ho vissuto negli anni '90, lavorando a film d'animazione e facendo spot televisivi. Se avessi dato una cosa per scontata nella vita, sarebbe stato proprio viaggiare. Perché per me è sinonimo di libertà. Ora tutto sembra lontano, sembra arrivare da un'altra epoca. Non sappiamo quanto tempo passerà prima che sarà di nuovo possibile muoverci. Ma sappiamo che prima o poi succederà. E questo è già molto”.