Non ho mai visto le stelle a Milano. Il mio coming out astronomico risale a una notte di mezza estate, con i gomiti puntati sull’erba che annega una vallata di 1700 ettari, le ciocche dei capelli sparse sulle pietre secolari di un anfiteatro en plein air, la stessa aria che doveva respirarsi nell’anno Mille, quando il castello che sorge sotto il cielo più bello d’Italia venne costruito. Non ho assolutamente idea di quanti giorni a cavallo impiegasse la dinastia dei Bargagli per raggiungerlo, io, nella mia epoca in cui ogni cosa deve essere supersonica, ho impiegato un’ora di macchina da Firenze. Eppure, sono convinta che quella sensazione spiazzante, disarmante, disorientante che sto provando adesso, distesa su un oliveto a perdivista (e fiato), non conosce linee del tempo. Quella che un tempo era una torre di avvistamento lungo la via Francigena, poi diventata un borgo a tutti gli effetti, con tanto di scuola e chiese, e, infine, la villa di campagna di nobili senesi e milanesi (tutti i Visconti sono passati di qui, Luchino compreso), è oggi la scenografia - da Palma d’Oro - dell’hotel Belmond Castello di Casole a Querceto, in provincia di Siena. Resort abbracciato dalla campagna toscana vergine, che come ogni destinazione proposta dal gruppo leader dell’hospitality di lusso di proprietà di LVMH, è devoto all’accoglienza esperienziale, alla ricezione che sfugge il formale per votarsi al fenomenale, al cliente che smette di essere cliente per diventare amante, complice, di un viaggio umano.

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Tra suite in castello e ville che rubano le sfumature calde alla terracotta, ranger campestri che invitano a safari all’alba o al tramonto per le tenute della proprietà, spedizioni di forest bathing per imparare a camminare nella natura, respirare sotto i querceti, accarezzare e lasciarsi accarezzare dalle foglie come se fosse la prima volta, bruciare quel libro sulla mindfullness che ci hanno regalato alla festa di Natale aziendale, per scoprire che “il qui e ora” si capisce meglio con le mani affondate dentro un cespuglio di elicriso. Sono alcune delle attività organizzate dal team del resort Castello di Casole, a sottolineare il debole di Belmond per lo human touch, per i viaggiatori che soggiornano nella struttura.

La Chioccetta per l’aia azzurra va col suo pigolìo di stelle. È una voce maschile accanto a me, che parafrasa Il Gelsomino Notturno di Pascoli, a risvegliarmi dalla mia digressione delle ultime 48 ore passate a sfiorare tartare di chianina col palato e zabaione montato al vin santo con le dita. Quella voce dalla verace intonazione romana, a contrasto con lo skyline senese, appartiene a Fabrizio Marra, giovane fondatore di Astronomitaly, il primo progetto italiano di sviluppo del turismo astronomico che racchiude e classifica le migliori destinazioni dove osservare le stelle in Italia e all’estero, e che nella volta sopra il Castello di Casole ha trovato la sua medaglia d’oro. “Ti ricordi dell’esistenza delle stelle solo quando ti allontani dalla città, succede a tutti”, mi fa il verso, con tono consolatorio, per rispondere al mio astro-dilemma iniziale. “Smettere di guardare il telefonino o per terra, e alzare gli occhi al cielo è il momento di rinascita dell’uomo dal suo io costantemente attaccato a una macchina. Riscoprire la natura, nel silenzio della notte, risveglia sensazioni e intensifica i sensi”, continua Marra che insieme al resort senese organizza rendez-vous più o meno intimi (sì, anche proposte di matrimonio da mille e una notte…) nell’anfiteatro nella vallata che circonda l’hotel.

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“L’inquinamento luminoso pari a zero e il prestigio della location rendono l’esperienza dello stargazing al Castello di Casole un’avventura non solo visiva ma anche sensoriale”, mi spiega il founder di quella che era nata come una start-up e si è presto trasformata in una società-rivoluzione del turismo italiano, che utilizza il cielo stellato come risorsa naturale per valorizzare i territori e, soprattutto, produrre un’offerta turistica nuova, sostenibile e responsabile. “Coltivare, tutelare, mettere a frutto il cielo stellato è quasi un dovere, lo stesso Unesco lo ha incoronato patrimonio dell’umanità, proprio perché fonte di ispirazione sin dall’antichità”, continua Fabrizio, che fa di me un’inaspettata nerd dell’astronomia, che mi fa ritrovate inaspettatamente i punti cardinali, dentro un cielo che sembra tutto uguale ma che tutto uguale non è, che mi fa sorridere quando dice che “in fondo, le comete che tanto bucoliche ci sembrano sono in realtà palle di ghiaccio sporche”, che la Chioccetta di cui parla Pascoli non è un animale ma una costellazione (quella delle Pleiadi, per essere precisi), che alla mia domanda sul perché si dice che “siamo fatti di stelle” risponde serio, “perché siamo nati dagli stessi atomi che avrebbero potuto comporre anche il sole”. È l’ultimo touché del nostro Caronte per una notte, che ci guida verso la retta via (Lattea).

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