Con le immagini capita che le più seducenti e sorprendenti, raccontino storie molto diverse da quello che mostrano. Soprattutto quelle con un contenuto forte, dirompente, pronto a nutrire progetti personali come Fortia ("Forza") di Keyezua. Visioni couture di grande bellezza, in abito rosso e maschere fatte a mano da un gruppo di artigiani di Luanda affetti da disabilità. Un rituale contemporaneo in maschera che esplora la forza. Della disabilità che ha segnato la sua infanzia privandola del padre. Delle coordinate geografiche della sua identità di donna angolano-olandese che vive e lavora a Luanda. Di artista della nuova generazione di fotografi di origine africana che vivono in tutto il mondo, rivendicandone il patrimonio culturale, con una molteplicità di prospettive che ne supera gli stereotipi. Sono loro i protagonisti della collettiva Refraction: New Photography of Africa and Its Diaspora, curata da Niama Safia Sandy e Cassandra Johnson alla Steven Kasher Gallery di New York (19 aprile – 2 giugno 2018).
Sono i rituali africani che danno senso ai costumi e spiriti alle maschere, ad animare quelli contemporanei di artisti che non temono di spingersi oltre i confini dell'Africa e della fotografia, guardando a un futuro più inclusivo e armonioso. Al legame complesso tra stereotipi e realtà della ricca comunità culturale 'nera' che l'artista visivo di Dallas Hakeem Adewumi, ha reso protagonista di ritratti intimi ed evocativi. Attento a far vedere quello che non ti aspetti e ricordare quello che è importante. A questa comunità appartiene anche Adama Delphine Fawundu, nata a Brooklyn da genitori della Sierra Leone e della Guinea. In questo scatto in mostra, evoca la divinità africana Mami Wata adagiata su un divano, mentre la tappezzeria amplifica la ricchezza culturale di tradizioni africane, fuse con altre a seguito delle migrazioni dei suoi antenati. Insieme a Laylah Amatullah Barrayn, Adama Delphine Fawundu è anche impegnata a dare una voce collettiva ai fotografi di origine africana con la pubblicazione della rivista, del libro (e il sostegno fornito ai fotografi emergenti) da Mfon: Women Photographers of the African Diaspora.
I ritratti di Nona Faustine, nata e cresciuta a Brooklyn, fanno qualcosa di analogo con la ricerca d'identità del progetto White Shoes. Indossando solo scarpe bianche, il suo possente corpo nero mette a nudo il paesaggio desolante del Financial District di New York. Di luoghi asserviti alla ricchezza disumana della transazione finanziaria, dove un tempo si praticava il commercio di schiavi. Il colore della pelle nera e la libertà che fornisce a chi la rende un monumento, è invece il fulcro del progetto Imperium di Zarita Zevallos, fotografo Haitiano di stanza a New York.
Si dedica al colore e al passato primordiale del nero, anche la sinfonia di in blu delle sperimentazioni con il cianotipo di Ivan Forde, nato in Guyana e trasferito a Harlem. La pelle si riprende la sua identità, insieme al potere del costume, anche con Leopard di Émilie Régnier, fotografo haitiano canadese che vive al momento a Parigi. Pelle usata per esplorare storia e simbolismo dalla stampa leopardo, perduta dalla moda occidentale animalier, associata all'Africa. Dalla pelle ai tessuti, il lessico visuale di Basil Kincaid, di stanza a St. Louis, riveste le tradizioni con trapunte, collage, fotografie e installazioni, per affrontare conflitti e interrogativi del contemporaneo.
Le opere fotografiche dell'etiope Girma Berta, realizzate per il progetto in technicolor Moving Shadows, nascono nelle strade affollate della sua città, la capitale etiope Addis Abeba. Estraggono i milioni di facce, private della voce dalla politica di sviluppo del secondo paese più popoloso d'Africa. Quello dove lui è nato e cresciuto, anche come fotografo, sfruttando al massimo le potenzialità di uno smartphone e di Instagram (arrivando a conquistare il Getty Images Instagram Award nel 2016). È di stanza ad Addis Abeb anche la giovane artista e fashion designer Eyerusalem Adugna Jirenga, ma il suo progetto The City of Saints si concentra sulla routine quotidiana delle donne di Harar, conosciuta come la quarta città più Santa dell'Islam.
Da Washington a New York, l'americano Stan Squirewell, esplora l'identità con un'iconografia tribale che si nutre delle memorie del passato e del contemporaneo. Con l'approccio multidisciplinare di Shawn Theodore, che vive e lavora a Philadelphia, la rappresentazione degli afroamericani e degli individui africani della sua Diaspora, sfiora entità quasi metafisiche e totemiche, spinte anche oltre i confini della forma. Con questa mostra molti potrebbero mettere in discussione qualche pregiudizio, altri innamorarsi di tradizioni contemporanee che hanno superato da tempo i confini geografici dell'Africa.