Il colore del passaporto è un po’ come il colore della pelle. Devi tenerti quello che ti è toccato per destino. Come succede con la miseria, ma quella invece è uguale in ogni angolo del mondo. È difficile trovare delle colpe a chi non riesce a mettere in tavola un piatto di minestra al giorno. Forse è vittima del sistema o della sua stessa ignoranza, perché se il riscaldamento globale gli ha rubato le piogge, non ha senso seminare mais e caffè. Non cresceranno. Bisognerebbe dedicarsi alla coltura di alcuni grani, di ceci o girasoli. Ma comunque, niente dovrebbe negare a queste persone il diritto di essere madri e padri, e di cercare la felicità per i loro figli. Invece questo è ciò che accade ogni giorno a migliaia di famiglie centramericane che, spinte dalla disperazione, lasciano il Guatemala, l’Honduras o El Salvador per raggiungere clandestinamente la frontiera statunitense. Li chiamano mojados, bagnati, perché molti di loro spuntano negli Stati Uniti nuotando nelle acque del Rio Negro, il fiume che separa il Messico dal Texas. E molti altri invece, da quelle stesse acque, non riemergono più.

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Alberto Giuliani
Doña Micaela è la leader del villaggio di Chimban. A lei chiedono consiglio le madri della comunità, che, aiutandosi, riescono a crescere i bambini in assenza dei padri. Micaela vive col figlio, rimpatriato lo scorso anno dalle autorità americane.

Il viaggio dei migranti latini non è molto diverso da quello dei nostri africani. Come loro, anche i mojados affidano le speranze e gli ultimi risparmia trafficanti senza scrupoli, che qui si chiamano coyote e che non sono migliori dei farabutti che spingono i barconi nel Mediterraneo. Attraversano il deserto camminando di notte, tra spine e serpenti, muovendosi veloci come scarafaggi per evitare le bande dei narcos e gli squadroni del-la polizia. Hanno una sacca con qualche tortilla, acqua e fagioli cotti. E stringono la mano del loro figlio più grande, perché almeno lui possa studiare, trovare un lavoro e, un giorno, togliere la famiglia dal fango.

I minori entrati clandestinamente negli Stati Uniti sono stati nell’ultimo anno più di 33mila, con una crescita del 132 per cento sull’anno precedente. «Useremo il timore e la forza. Rimuoveremo milioni di immigrati illegali», è stato il commento di Donald Trump che ha moltiplicato il numero dei centri di detenzione alla frontiera con il Messico, mentre la polizia rastrellava i clandestini in tutte le principali città americane. Persino la catena alberghiera Motel 6, presente in ogni angolo del Paese, ha comunicato al dipartimento immigrazione della polizia la lista di tutti i suoi ospiti e in pochi giorni 2.100 clandestini sono stati arrestati e 130mila rimpatriati.

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Maribel ha 30 anni e vive nel villaggio di Pueblo Viejo. Il Marito e la loro figlia Ashlin di nove anni sono emigrati negli Stati Uniti e da un anno vivono in Louisiana. Lei è rimasta tra queste montagne a crescere le altre due figlie.

«Solo i minori sono trattenuti negli Stati Uniti», spiega Eduardo Woltke, della Procura per i Diritti Umani del Guatemala. «Sono inseriti in un sistema di protezione fumoso, umanamente degradante e intimidatorio, che termina con l’affido a parenti americani, se ce ne sono, o con l’adozione». Una legge americana prevede infatti la brutale separazione dei figli dai loro padri, nel nome della tutela minorile. Il 21 agosto scorso, poi, è stata modificata la norma: ora le famiglie fermate al confine possono essere trattenute a tempo indefinito, non più solo per un massimo di 20 giorni. «Portare un figlio alla clandestinità dimostra la volontà di abbandono. Dobbiamo prenderci cura di loro», dichiara l’amministrazione Trump. Ma è abbastanza chiaro che nelle loro parole pesa più la volontà del castigo che quella dell’aiuto.

Il problema delle migrazioni è globale e complesso, ma non risolvibile con la repressione. Le Nazioni Unite stimano che nei prossimi decenni saranno più di 250 milioni le persone che dovranno abbandonare le loro terre per via del cambiamento climatico. Famiglie e interi popoli, che per migliaia di anni hanno vissuto della ricchezza della terra e a cui oggi non è rimasto nulla se non la loro vita, che nelle condizioni attuali, non ha un gran valore. Si sposteranno da Sud verso Nord, dall’area tropicale verso l’Europa e gli Stati Uniti. E se non avremo la capacità di offrire loro delle alternative e di contrastare il riscaldamento del pianeta, qualsiasi muro erigeremo sembrerà fatto di sabbia contro le onde del mare. Emigrare non significa solo andarsene. Vuole anche dire perdere le tradizioni, la cultura, la lingua, distruggere i legami familiari e, per i più piccoli, vivere il disagio di una privazione affettiva che rischia di far crescere una generazione antisociale.

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Pueblo Viejo. Qua e là nei villaggi, tra le capanne di fango e latta, sorgono edifici che stridono in questi contesti di povertà. Sono le case di chi ha avuto la fortuna di entrare negli Stati Uniti e trovare un lavoro nelle piantagioni del Texas o nei food delivery delle città.

Fermare questo destino vuol dire intervenire subito, offrendo ai soggetti più deboli alternative e conoscenze. In questa direzione vanno gli aiuti portati da WeWorld, una onlus italiana che in Guatemala lavora nelle comunità maggiormente colpite dalla siccità, dove il 60% della popolazione vive in condizioni di povertà, il 67% dei bambini sotto i cinque anni presenta uno stato di severa denutrizione e ciascuno di loro ha un padre emigrato. Sicurezza alimentare, nutrizione e aiuto al sostentamento sono i pilastri dell’intervento, che sotto il volo degli avvoltoi tra i campi polverosi diventano ingegnosi sistemi di irrigazione, nuove colture agricole resistenti alla siccità, aiuti alimentari e assistenza sanitaria per i più piccoli. Gli angeli che portano questi aiuti nelle mani di donne e bambini sono i ragazzi di EU Aid Volunteers, il programma di volontariato dell’Unione Europea. Migliaia di giovani formati da Bruxelles e sparsi in tutto il mondo, che scelgono di dedicare il proprio tempo per crescere un futuro migliore. Sono loro che si spostano tra le montagne di Huehuetenango, nel Nord del Guatemala, affrontando molte ore di viaggio ogni giorno per raggiungere le comunità più remote. Insieme ai professionisti di WeWorld, ai suoi infermieri e ai leader delle singole comunità, questi ragazzi ascoltano i bisogni di ogni abitante, misurano la crescita di ogni bambino e consolano le lacrime di ogni donna. Perché ci sono molte ragioni per lasciare la terra dove si è nati, ma solo la disperazione della vita contro la morte può spingere una madre a separarsi dal figlio.

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La chiesa di Chimban, dove gli anziani invocano le divinità Maya affinché proteggano il viaggio dei loro figli.

«Sentivo un peso sul petto da togliermi il respiro», dice Maribel, 30 anni, ricordando il giorno dello scorso autunno nel quale la sua piccola Ashlin è partita per gli Stati Uniti col padre. Si commuove a quel pensiero, porta lo sguardo al cielo e stringe a sé gli altri suoi due bambini, all’ombra della capanna di fango e lamiera nella quale vengono distribuiti gli aiuti alimentari di WeWorld. «Lei era felice di andare in America. Aveva nove anni, era un sogno. L’ho baciata e le ho messo in mano delle bamboline quitapenas. Servono a togliere le paure. Sono grandi come un’unghia, chiuse in una scatola di fiammiferi. Gli sussurri il tuo timore e le metti sotto al cuscino. Tengono lontani i fantasmi». Maribel ha abbracciato la sua bambina e l’ha guardata salire su un furgone pieno di gente diretta al confine col Messico. Sapeva che quel momento insieme sarebbe stato l’ultimo, ma non le restava altra scelta, per lei e per gli altri figli da crescere. «Ringrazio il cielo che siano arrivati sani e salvi», dice, spiegando che ora vivono in Louisiana. Sono clandestini, ma il marito ha trovato lavoro come raccoglitore di frutta e la figlia va a scuola. Le mandano qualche dollaro a settimana, ma per una famiglia che viveva con un dollaro al giorno, quell’aiuto equivale alla sopravvivenza e lenisce il dolore della separazione.

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L’insegna di un negozio a Soloma.

Qui sta il paradosso della storia di Maribel e di quella dei 200mila latinos che nell’ultimo anno sono entrati clandestinamente negli Stati Uniti. Il sogno americano vince sempre, anche contro le violenze, i rapimenti o gli omicidi di cui è fatto il viaggio. Supera ogni sopruso, mortificazione e abuso subiti in un Paese che vorrebbe rendere illegale anche le loro speranze. La vita misera che attende i clandestini oltre la frontiera gli permette comunque di costruire una casa di mattoni perla famiglia rimasta in Guatemala, di far mangiare i figli e di immaginare un futuro migliore. Per tutto questo i guatemaltechi sono grati agli Stati Uniti. Con orgoglio le famiglie dei migranti appendono fuori dalla finestra la bandiera a stelle e strisce, chiamano i loro figli con nomi americani e nei giochi dei bambini, sulle strade di terra dei villaggi, le parole dello slang inglese diventano il segno del riscatto sociale.

Se la miseria ha un aspetto positivo è quello di mostrare le vie della resilienza, aprendo alla vita cammini insperati. Questa generazione di sangue Maya è cresciuta in trent’anni di guerra, dittature, corruzione, narcos, siccità e fame; non sarà certo una frontiera a fermare il suo sogno. «Si può sbagliare, ci si può anche arrendere, ma non perdere la dignità», dice Don René, ex guerrigliero della rivoluzione che, con infinito amore per il popolo delle sue montagne, accompagna gli operatori di WeWorld. Seduto su una pietra nella vegetazione umida di un cafetal (piantagione di caffè, ndr) dialoga con un coltivatore disperato per il raccolto che sta perdendo. «Arrivano le nuvole, sembrano portare la pioggia e invece se ne vanno. È così da mesi», dice, mostrando grappoli di frutti avvizziti e acerbi sulle piante. Ogni anno è più magro, i compratori se ne vanno e dei suoi undici figli, due sono già in America. «Se Trump alza un muro, troveremo il modo di passarci dilato», commenta ridendo. «L’Occidente globalizza il mondo, e noi globalizziamo la rivoluzione», incalza Don René, con la fierezza di chi non si arrende alla povertà.

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Delmira Ester ha 29 anni e suo figlio, Juan, 3. Lavora saltuariamente come infermiera nell’ambulatorio del villaggio di Pueblo Viejo. Per sopravvivere coltivava mais ma a causa della siccità le piante si seccano prima di maturare. Così il marito è emigrato. Ora è a New York e consegna pizze a domicilio.

DIVENTARE VOLONTARI CON WEWORLD
EU Aid Volunteers è un’iniziativa dell’Unione Europea (promossa dalla Direzione generale per le operazioni di Protezione Civile e aiuto umanitario della Commissione europea ECHO) che offre l’opportunità ai cittadini europei maggiori di 18 anni di essere coinvolti come volontari in progetti umanitari. Prima di essere inviati nei Paesi del Sud del mondo ricevono una formazione. WeWorld, partner dell’UE nel programma dal 2012, è stata la prima organizzazione non governativa a essere riconosciuta e autorizzata a formare i volontari (finora più di 100 in diversi Paesi).

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Martina Rosini in Guatemala da quasi un anno con WeWorld e il programma EU Aid Volunteers.