Dal punto di vista del senso comune, l'associazione tra moda e creatività è un fatto naturale. La moda è generalmente intesa come il luogo della creatività, il settore produttivo che esprime la punta più avanzata della ricerca e della sperimentazione rispetto alle possibili declinazioni del gusto. Tuttavia tale associazione si è trasformata nel corso degli anni, soprattutto da quando il valore del brand ha assunto una centralità simbolica enorme, capace di dominare l'immaginario dei consumatori e del mercato.

Così si è passati da una concezione intensiva che vedeva la moda come creatività concentrata nel design di capi e accessori a una concezione estensiva che invece investe globalmente le attività delle aziende e che - soprattutto dagli anni 90 in poi - si apre a ciò che sta al di là del perimetro delle aziende: i luoghi del consumo, della cultura e della vita quotidiana. Tale processo incrocia quello che ha visto trasformarsi l'idea stessa di lusso nell'ideale del neolusso, che da un lato rivaluta sistemi di valori anteriori allo sviluppo della società industriale: un senso di comunità associato al senso del luogo, convivialità, affettività, naturalità, spiritualità e benessere. Dall'altro lato, invece, il neolusso indica un eccesso di elaborazione, di intellettualizzazione che si trasforma in uno sguardo antropologico sempre più complesso del sistema moda su se stesso.

La crescita d'interesse del sistema dei consumi nei confronti del mondo della cultura è stato rilevato da importanti studiosi, tra cui Jeremy Rifkin con il suo L'era dell'accesso. Ma occorre distinguere almeno due definizioni di cultura: quella con la “c” maiuscola, ovvero una produzione simbolica alta, dalla cultura con la “c” minuscola, che ha a che vedere con le pratiche quotidiane di produzione e consumo. Da un lato, per esempio, l'interazione tra moda e danza classica, discussa da Eleonora Fiorani in Abitare il corpo, che giunge fino all'ultima sfilata a-i uomo 2017 di PORTS 1961 introdotta dal ballerino Sergei Polunin del ROYAL BALLET di Londra. Dall'altra invece la moda come sguardo antropologico che incorpora persino stili valorialmente contrastanti, come quello balcan gypsy o addirittura quello dei clochard.

Dagli anni 90 la moda si è nutrita sempre più voracemente di cultura, tramite strategie volte a sostenere e a promuovere il potere simbolico del brand. Un esempio di strategia gestita dall'alto riguarda l'attività delle fondazioni: enti senza scopo di lucro che operano nel circuito dell'arte, ma la cui attività riverbera positivamente sull'immagine pubblica del brand (si pensi alla FONDAZIONE PRADA e FONDAZIONE TRUSSARDI). Un esempio di strategia dal basso riguarda il modo attraverso cui i nuovi marketing (guerrilla, viral, esperienziale ecc.) hanno saccheggiato il patrimonio stilistico di culture locali, giovanili, urbane, etniche, per rinnovare l'immagine del brand arricchito da un contenuto d'autenticità. La summa massima di tali strategie (quella che integra in un unico progetto tutte le altre all'insegna di una narrazione che discende dal nucleo centrale di valori legati al marchio) è lo storytelling. Questo termine, ormai quasi noioso a causa della sua onnipresenza, trasforma ogni oggetto in racconto e ogni racconto in strumento di legittimazione del brand. Tutto può essere trasformato in una narrazione, come dimostra lo splendido film Helvetica di Gary Hustwit (2007) che racconta appunto la storia di questo celebre font e la sua proliferazione nella vita quotidiana.

Ma la questione centrale dello storytelling è la sua relazione con il mondo di valori che animano la maison. Per questo è indispensabile individuare un creativo la cui sensibilità sia affine al mondo del designer che fa da committente. Esemplare è la connessione tra Wes Anderson e PRADA, che si consolida grazie al comune interesse dei due per quella che Simon Reynolds definirebbe come “estetica retromaniaca”, paradossalmente incentivata dall'archivio senza tempo di YouTube e basata sulla ricostruzione del passato talmente attenta, filologica e maniacale da assumere tratti surreali. La collaborazione tra i due passa soprattutto per lo short movie Castello Cavalcanti, che sul canale YouTube di Prada ha raggiunto 330mila visualizzazioni, per sfociare poi nel formidabile progetto del BAR LUCE della Fondazione. Qui lo storyteller, abituato a esprimersi con le immagini in movimento, si è fatto designer per trasformare la narrazione in ambiente vissuto ed esperibile che fonde le due definizioni di cultura (con la “c” maiuscola e minuscola) in un'unica esperienza condivisa. Altri giovani creativi sono giunti al cospetto dei brand globali con il loro patrimonio di storie inedite e originali, proponendo racconti visuali ancor più brevi e minimali.

Nel tributo di Emmanuel Giraud a VIVIENNE WESTWOOD intitolato Too Much Future, il motto dell'epopea punk No Future viene ribaltato nel suo opposto - fin troppo futuro in un mondo ammalato di nostalgia - mentre giovani modelli ballano di fronte a una band hardcore, si rafforza l'equazione Westwood=Punk=UK, già marcata in varie occasioni, dalla mostra sulla stilista nel V&A del 2004 all'evento che nel 2016 celebrerà a Londra i 40 anni dell'epopea punk. La videoinstallazione di Atelier Impopulaire per DRIES VAN NOTEN, con effetti speciali di ELENA PETITTI DI RORETO, raffigura i corpi delle modelle come immagini tremule a metà strada tra Francis Bacon e Bill Viola. Queste immagini assorbono e trasudano il tempo, mutando forma per diventare strutture geologiche o fossili.

Sempre sotto la direzione artistica della di Roreto, il video per EMILIO PUCCI incrocia storytelling, videoarte ed effetti di postproduzione, per salutare il debutto di MASSIMO GIORGETTI e il riposizionamento della maison da custode della tradizione made in Italy ad avamposto della sperimentazione. Il caso più rappresentativo dell'integrazione tra immagine del brand, innovazione tecnologica e tecniche di visual storytelling è quello della designer olandese IRIS VAN HERPEN, che già a partire dal 2010 ha dato inizio alle sue sperimentazioni con l'ormai popolare stampante 3D. L'utilizzo di questa tecnica nasce dal movimento “politico” dal basso di critica al capitalismo industriale e di coinvolgimento di vari creativi (i Fablab) nella sperimentazione di un nuovo design altamente personalizzato e partecipativo. Nel caso della Van Herpen l'hardware si fonde con il software, le strutture complesse degli abiti e degli accessori progettati e stampati in 3D si coniugano con il visual storytelling che lega il prodotto al brand. Crystallization, diretto da Joost Vandebrug con il sound design di Salvador Breed, costruisce un vero e proprio ambiente audiovisuale in cui il concept dell'abito, che cade sul corpo della modella come una secchiata d'acqua (Splash of Water), è appunto cristallizzato, messo in movimento e reso esperibile da questa rappresentazione altamente “immersiva”.

Gli esempi citati suggeriscono che la progressiva integrazione tra innovazione del design e tecniche sempre più elaborate di storytelling – unita ad altri tipi d'innovazione come per esempio le wearable technologies – trasformerà la moda in un vero e proprio medium, ovvero in un dispositivo capace di produrre, veicolare e rendere esperibili racconti che supportano l'identità e i valori dei brand.