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SCENE DA UN PATRIMONIO

UN PRODOTTO DI GRANDE QUALITÀ FATTO IN SERIE. ACCESSIBILE. NON UN LUSSO PER POCHI ELETTI. QUESTI PARAMETRI DEFINISCONO LA MODA ITALIANA, CHE SI MUOVE IN UN RAPPORTO SIMULTANEO TRA PASSATO E FUTURO, TRA COERENZA E DIFFERENZA.

Di Maria Luisa Frisa
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SICURAMENTE uno dei gesti più situazionisti nel racconto delle traiettorie della moda contemporanea è stato quello di citare il filosofo Giorgio Agamben in apertura del testo della press release di una sfilata: «È davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò in questo senso, inattuale; ma proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il proprio tempo».

Il gesto lo ha fatto Alessandro Michele al suo debutto come direttore creativo di Gucci, per mettere le carte in tavola, per fugare ogni dubbio su come intendeva muoversi rispetto a quel desiderio di essere sempre e comunque contemporanei che tanto ossessiona la moda. In quella declinazione che insegue il nuovo e la novità a tutti i costi. A spiegare le parole di uno dei filosofi italiani più ammirati e studiati in tutto il mondo e ad adattarle alla collezione che veniva presentata a Milano le parole di Vanni Attili, compagno di Michele: «Una soglia di contaminazioni dove sopravvivenze del passato si intrecciano a prefigurazioni di futuro». In queste parole è sicuramente contenuto il sentimento della moda del nostro tempo porosa alla storia e sensibile alle visioni del futuro. Ma soprattutto senza tempo, in una dimensione progettuale che sposta il senso del vestirsi - attenzione: non del coprirsi - in un territorio intermedio che ha da tempo superato il tema della stagionalità, del gender, e dell’essere alla moda.

Se da una parte la passione per il vintage, la mania dell’archivio e l’accesso simultaneo a tutti i materiali della storia hanno dato la possibilità di attraversare liberamente il tempo e gli stili creando un cortocircuito temporale che nasce dalle differenze e dalle singolarità, dall’altra nuove correnti di pensiero invocano sempre di più il diritto all’oblio. La possibilità di agire partendo da zero, senza il pesante fardello dell’archivio. Della memoria. È interessante allora come le parole di Giorgio Agamben siano illuminanti anche riguardo a un’altra categoria che troviamo usata sempre più di frequente a bilanciare la vertigine del tempo e a definire alcuni degli oggetti di qualità che la moda produce: Timeless.

Senza tempo, a significare che non subiscono l’usura del tempo e non risentono dell’ansia dell’essere alla moda. Alcuni degli oggetti di qualità prodotti da quell’etichetta gloriosa che è il made in Italy appartengono a questa categoria. Oggetti come le borse intrecciate di Bottega Veneta o la Bamboo bag di Gucci, o il cuoio di Saffiano di Prada, la Selleria di Fendi o ancora il famoso cappotto di Max Mara 101801. Oggetti che possono rimanere per qualche tempo nell’armadio, all’apparenza dimenticati, ma che riemergono periodicamente proprio perché la qualità del design e dei materiali li rende delle vere commodity. Il made in Italy è questo: un prodotto di grande qualità fatto in serie. Accessibile.

Non è il lusso per pochi. È l’utopia ormai dimenticata della moda democratica che non è però il fast fashion. Ma che, a pensarci meglio, potremmo indicare come qualcosa che non è senza tempo, ma piuttosto fuori sincrono e quindi sempre contemporaneo perché mette in discussione perenne l’appartenenza di quell’oggetto al gusto che l’ha generato. Quando Alessandro Michele ci parla dei suoi cassetti disordinati dove mette quello che gli interessa, senza preoccuparsi delle inaudite congiunzioni che si vengono a creare, ci racconta della sua pratica creativa. Per fortuna le diverse collezioni non rappresentano una sequenza lineare, non vogliono essere una l’evoluzione dell’altra. Lui ci fa capire, insieme a una serie di artisti della sua generazione, come si può riorganizzare la materia vissuta attraverso dispositivi di rappresentazione e produzione che corrispondono a una nuova soggettività, la quale esige nuovi modi di rappresentazione. In cui il tempo non si dispieghi in maniera limitata.

Nei negozi di Gucci, le collezioni si integrano stagione dopo stagione. I diversi abiti, gli accessori si fanno compagnia in una sorta di fantasmagoria abbagliante in continua evoluzione, dove si trova sempre spazio per i nuovi arrivati. È la pratica del montaggio, della post-production. L’atlante warburghiano che procede con le libere associazioni. Ecco il timeless del nostro momento. Non l’oggetto in sé, ma la pratica progettuale che c’è dietro. Il pensiero che guida l’azione. «Nel corso degli anni ho scelto la sintesi come espressione. Associare “sinteticamente” la moda del momento alle idee del passato […] con la fotografia, con l’illustrazione, con i caratteri grafici. Con una costruzione sempre diversa. Inventata». Così Anna Piaggi, una delle figure più carismatiche e seminali nel panorama della moda internazionale, nel suo stile visionario e funambolico ci introduce nella straordinaria vitalità dei meccanismi della moda. In quella circolarità inventiva, in quel guardarsi indietro e intorno in un continuo e perplesso vagabondare, che è proprio della moda, per rinnovarsi a ogni stagione.

In quel tenere insieme, in maniera analogica e non logica, le cose più diverse: stili, corpi, strappi, lacerti, oggetti, versi, parole, indizi, colori, posture. In quella speciale vertigine creativa, capace di generare visioni e forme in grado di innestare sfide e spaesamenti. Il motore della moda muove insieme presente e passato. Potremmo affermare che lavora inserendo il passato a ogni pulsazione del presente. La moda è circolare perché ha un rapporto simultaneo con il futuro e con il passato. L’attenzione a due diverse dimensioni temporali costringe la moda a quell’eterno ritorno che ripropone ciclicamente quelle che all’apparenza appaiono come ripetizioni delle stesse forme, e che invece sono ogni volta differenti, deformate dalle attitudini di quel gusto che le ha riportate in superficie. Una dialettica affascinante che si ripropone senza regole prestabilite.

Così il rapporto che la moda ha da sempre intrattenuto con il tempo, oggi si è evoluto perché è cambiato il nostro rapporto con il tempo, la nostra struttura del sentire. Oggi autori come Demna Gvasalia stanno tracciando una strada da cui sarà difficile tornare indietro, perché riporta in modo radicale alla moda delle origini. Una moda antiglamour, che non vuole sedurre ma diventare parte attiva di una riflessione sul senso dell’abito nel nostro tempo. Abito in quanto architettura più prossima al corpo, moda in quanto macchina che progetta gli immaginari e i desideri del nostro tempo. Raccogliendo un passato (nel caso di Gvasalia quello complesso che definisce una maison come Balenciaga) che viene riattivato in modo scomposto. Scomodo. La contemporaneità è davvero quell’essere fuori sincrono di cui si diceva in apertura, utilizzando le intuizioni di Giorgio Agamben.

Non è un’attitudine accomodante, non è pacificatoria. È scomoda e difficile, come deve essere la moda. Il resto sono le montagne di abiti che usiamo per coprirci, tutti uguali e senza senso. E quindi, forse, l’unica definizione possibile della moda (e del design) nel magmatico panorama culturale attuale è quella che scaturisce dall’osservazione del processo, dell’esperienza, del percorso di chi “crea”, e dalle narrazioni che vengono prodotte attorno a questi universi. Questa è l’idea di timeless che ha senso pensare come elemento definitorio della moda. Un’intuizione che aveva avuto non a caso anche Franca Sozzani, quando ha inaugurato la sua stagione alla guida di Vogue Italia. La prima cover era per il numero del luglio-agosto 1988. Robyn Mackintosh con una camicia di Gianfranco Ferré fotografata da Steven Meisel. Un’immagine essenziale, in studio, che racconta di una precisa idea italiana di glamour: la camicia, basica architettura per il corpo, è emblema del nostro sofisticato prêt-à-porter. Il nuovo stile, come recita la copertina, è quasi un dressing down, che chiude il decennio degli eccessi: una sottrazione molto costruita, un’idea di naturalezza estremamente controllata. Era (ed è) uno stile nuovo proprio perché in realtà afferma e conferma le straordinarie qualità senza tempo della moda italiana e del suo design.

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Human leg, Shoulder, Elbow, Joint, White, Standing, Wrist, Chest, Jaw, Knee,
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Brown, Product, Yellow, White, Style, Tan, Fashion, Beige, Leather, High heels,

IL MOCASSINO DI GUCCI. Prima era unisex. Oggi è genderless. Il loafer conquista nuove vette con maxiplatform, morsetti in metallo dorato, borchie e perle siglate GG.

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Collar, Sleeve, Dress shirt, Outerwear, Standing, Formal wear, Suit trousers, Pocket, Style, Blazer,

IL BLAZER DI GIORGIO ARMANI. Maschile/femminile, singolare. Da sempre sinonimo di Re Giorgio, è ancora il protagonista della collezione Cruise 2017.

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IL PIUMINO DI MONCLER. Negli anni 80 non c’è un paninaro che non l’abbia indossato. Oggi ricorda un chiodo in stile biker, caldissimo.

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Red, White, Carmine, Pillow, Pattern, Coquelicot, Cushion, Throw pillow, Graphics,

LA BAGUETTE DI FENDI. Una delle poche borse a poter sfoggiare davvero il titolo di “it-bag”. La nuova versione è in pelle, con motivo a onde e ricami.

6
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IL VESTITO GUÊPIÈRE DI DOLCE & GABBANA. L’italianità fatta abito. Ha rivestito e riveste la donna di fascino a colpo sicuro, femminilità, tradizione. E di tutti i simboli più radicati nel nostro Paese.

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