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Senza tempo né remore

Cos'è timeless nella moda? Di certo non solo la tradizione, anzi. A superare e sublimare le tenenze correnti è ciò che, all'inizio, contraddice il senso comune e contiene un po' di ribellione. Per arrivare, anno dopo anno, a testimoniare l'autenticità di un'idea.

Di Angelo Flaccavento
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FIN DALL’ETERNITÀ la moda lotta contro l’eternità, recitavano le scritte in sovrimpressione di un bizzarro spot - parte di una serie, astratta alquanto, e per questo impossibile da dimenticare - che Jean-Luc Godard, paladino della Nouvelle Vague e maestro indiscusso di montaggi a singhiozzo, congiunzioni balzane e altre amene assurdità, girò qualche lustro fa per Closed di Marithé e François Girbaud - un marchio di urbanwear evoluto, mica un tempio del concettuale, si badi bene.

Correva l’anno 1988: all’epoca il falò delle vanità non era nemmeno una lontana premonizione nelle fantasie millenariste dei profeti di sventura. Il mondo era ancora diviso in blocchi, e a Ovest si consumava assai, senza remore e senza scrupoli. Lo si faceva di gusto e di getto: il marketing era fantascienza nebulosa, sicché qui e lì pionieri e temerari presero a sperimentar forme di comunicazione nelle quali il prodotto manco si vedeva. Bei tempi, che è inutile rimpiangere. Lo slogan, invece, è ancora valido: un distillato di sbrilluccicante amarezza, come sarebbe piaciuto a Cioran o al buon Leopardi.
C’è poco da girarci intorno, del resto: la moda e il tempo sono in tenzone continua, e più sembrano rappacificarsi, maggiore è la bagarre. Si accapigliano e si dimenano, ab antiquo e ad aeternum, un po’ come il Laocoonte avviluppato dalle spire dei serpenti che tanto turbò le olimpiche fantasie di Johann Joachim Winckelmann. La moda odia l’oblio dell’eterno, s’ostina a congelare la marcescenza dei minuti che passano con ogni frivolo mezzo. Invano? Di certo, ma non necessariamente del tutto. La lotta mantiene vivi pensiero e fantasia, e allunga la vita di tutto, e di tutti, anche di giacchette e cappottini pensati per l’obsolescenza nello spazio di un tweet.
I metodi antitempo? Sono due, opposti. Le lancette che corrono inesorabili si arrestano a colpi serrati di cambiamento continuo, in un depistaggio consumista e consolatorio che è solo un rito apotropaico - cambiamento di pelle, forma e vestimento in nome della giovinezza eterna - consumato smemoratamente alla cassa di negozi e boutique, gli altari del contemporaneo. Ma lo scorrere dei minuti si blocca anche, forse con maggior decisione, negandolo tout court - il cambiamento frenetico e isterico -, preferendo invece quel che dura e inibisce il consumo invece di accelerarlo. Fuor di metafora: la soluzione all’ansia di sparire dalla faccia della terra può giungere, comprensibilmente, dalla solidità che attraversa, incrollabile, le decadi, mettendo al riparo dal nonsense del nuovo a ogni costo con sferzate di rigore estetico e morale. Una vestina che passa di madre in figlia, perché sempre valida: eccola la panacea. Pare una assurdità, eppure la posizione è condivisa - che tanto poi tutto prima o poi torna polvere, incluso il cappotto cammello immutato nella sostanza per un secolo intero o forse più.
Timeless - senza tempo: la soluzione al corrompersi sconfortante dei costumi, dei corpi, delle mode. Risoluzione silente e potente, vecchia in realtà come l’uovo e la gallina, ma che mai come oggi ha assunto i contorni di una filosofia che oppone solidità, valore, lentezza alla velocità scellerata che tutto sbriciola e tutto svaluta perché non riconosce il valore di niente. Oggi dunque che le mode sono fatte forse solo per l’apprezzamento retinico, per appagare un’ansia vorace che si esaurisce guardando - quel che gli esperti chiamano “fauxumerism”, ossia “faux consumerism”: l’urgenza di consumare prodotti sullo schermo, senza bisogno di correre alla cassa o metter mano al portafogli -, si afferma il bisogno solido di cose che durino, che diano un appiglio e una sicurezza nel vorticare di segni e degli stili. Ecco allora che “senza tempo” assurge a vessillo e valore, strombazzato e martellato con pertinace dedizione, vocabolo prediletto nella retorica di marchi e maison, i più diversi. Tutti vogliono essere senza tempo: i classici un po’ gnucchi così come gli avanguardisti spericolati. Non tutti riescono, però. Sono davvero timeless, infatti, solo quanti non si pongono nemmeno il problema. Perché ahinoi anche “senza tempo” ormai è una categoria di marketing - come tutto, dalla politica al pensiero, in quest’epoca di mercificazione sconsiderata in streaming continuo.

E allora, cosa è davvero timeless? Non il classico, o certamente non solo il classico. Troppo facile glorificare la durata immarcescibile di ciò che si è perfezionato di lustro in lustro fino a diventare archetipo incrollabile. Lì si scivola nell’ovvio, che oggi a conti fatti è il basico. Che i cinquetasche, la t-shirt bianca e il trench, così come il divano Chesterfield e i troni di Mackintosh siano timeless è una lapalissiana verità. Ci arrivano tutti. Senza dire che per quel che riguarda la moda i pezzi in questione sono talmente -less, così privi di orpelli, sovrastrutture, superfetazioni e arzigogoli, da essere non solo senza tempo, ma anche senza età, senza sesso e senza stagione. Viatici vestimentari per l’eternità? È assai probabile. Il timeless vero, però, non è mai così immediato. Lo diventa contraddicendo il senso comune. Timeless contiene in sé un seme di sedizione, un’oncia di ribellione. È quel che cattura lo Zeitgeist, l’inafferrabile spirito del tempo, mentre lo supera e lo sublima. È l’urgenza del qui e ora e la sua negazione.
Tutto quel che è veramente senza tempo, infatti, nasce o è nato da un rifiuto dello status quo. È radicale e senza compromessi, come la giacchetta facile e svelta che Coco Chanel creò usando un tessuto maschile, il jersey da indumenti intimi, scandalizzando i benpensanti e ispirando orde di creatori tra i quali Giorgio Armani, altro designer radicale, dunque senza tempo, che ha vestito le femmine come maschi, e continua a farlo con decisione invero timeless. Per non parlare del minimalismo moralista ed extralusso che lascia parlare solo lo splendore della materia. Anche questo è senza tempo: al punto che l’ascetismo sontuoso di The Row appare identico a quello ancor più estremo di Zoran, nonostante a separarli ci siano tre decenni buoni di mode e di storia. Senza tempo, ancora, è il brutalismo istrionico di Rick Owens, lui sì capace di scavalcare evi e lustri con visioni così pure e così potenti da abbigliare il futuro prossimo in vesti che, alla meglio, sanno di passato remoto, e che potrebbero essere cavernicole, medievali, sanculotte e chissà quanto altro, perché di una incorrotta potenza ancestrale. Che dire poi della sovversione clownesca di Rei Kawakubo o del lirismo punk di Yohji Yamamoto? Visioni che sconfiggono il tempo perché gutturali e viscerali. Autentico: ecco un buon sinonimo di timeless. Per giungere in fine all’ossimoro assoluto di due visioni: il più cambia, più è la stessa cosa di Miuccia Prada e il gran pastiche che sembra non cambiare mai di Alessandro Michele per Gucci, testardamente controintuitivo nella reiterazione martellante, ad infinitum, dello stesso topos. Timeless una visione, come l’altra, e pure parenti strette, accomunate dalla pertinacia di opporre la cifra personale al trend generalista. Timeless, a conti fatti, sono gli autori, forse più delle cose, di certo con robusti attributi.

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LEI COSÌ AMATA. È il titolo della biografia di ANNEMARIE SCHWARZENBACH, scritta da Melania Mazzucco. L’intellettuale svizzera, fortemente anticliché, si è trasformata in emulatissima icona.

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LA GIACCA “BAR” DI CHRISTIAN DIOR è il simbolo del “New Look”, il rivoluzionario stile che nel 1947 venne lanciato da Monsieur Dior. Proporzioni minute, vita segnata: una silhouette che ha definito un’epoca. Si chiama così perché adatta ai cocktail: ora è interpretata dalla nuova direttrice creativa Maria Grazia Chiuri per la haute couture p-e 2017, in versione più “addolcita”.

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IL “WRAP DRESS” DI DIANE VON FURSTENBERG. Le linee guida della stilista Usa? Stampa e colore, femminilità e praticità. Nato in jersey 43 anni fa come uniforme per le donne che volevano sentirsi libere e disinvolte, oggi rinasce in seta a bande colorate nella collezione d’esordio del nuovo direttore creativo Jonathan Saunders.

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LA BORSA “GABRIELLE” DI CHANEL. È la nuova borsa che porta il nome di battesimo dell’icona della moda per eccellenza. Una rielaborazione by Karl Lagerfeld che utilizza i codici della storia della maison e la traghetta nel futuro.

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LE PUMP DI CHRISTIAN LOUBOUTIN. Rispondono alla voce: sexy, sexy e ancora sexy. Sono le décolletées dalla suola rossa, diventata il “trademark” delle creazioni del designer. Risultato? Uno dei maggiori successi per l’oggetto par excellence del desiderio femminile.

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LA “KELLY” DI HERMÈS. Il suo nickname deriva da un noto episodio: la principessa di Monaco la usò per celare la gravidanza. Oggi è celebre per le comprensibili e lunghe liste d’attesa

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