L’occhio deve viaggiare. Per formarsi, per ingrandire una visione che altrimenti apparterrebbe solamente a un linguaggio limitato di ricordi ed esperienze. Lo sa bene Cassandra Postema, designer olandese con base a Bali, in Indonesia. La creativa è mente e anima di Emi & Eve, un progetto di gioielleria sostenibile nato (quasi) per caso una decina di anni fa in Cambogia, dopo l’incontro di Cassandra con una famiglia di orafi locali i quali realizzano gioielli usando il metallo riciclato da mine e bossoli di guerra. Decide così di aiutarli, facendo realizzare loro alcuni modelli, da lei disegnati. Oggi la realtà orafa è molto più grande ma il cuore del l’impresa è sempre lo stesso, così come gli obiettivi. Lo racconta direttamente la globetrotter dall’Olanda, dove si trova temporaneamente.

Come mai una donna nata in Olanda, cresciuta a Singapore, Austria e Giappone porta un nome e cognome italiani?
Ma sai che in realtà Postema è un cognome olandese? E pure molto comune. Non so se sia così anche per voi. Cassandra, invece, potrebbe essere greco, l’ha scelto mia madre.

Alla fine però sei giunta a Bali, dove hai trovato la tua stabilità, pur continuando a viaggiare. Come mai proprio l’isola indonesiana?
È un’isola che conosco da sempre, ci andavo con la mia famiglia in vacanza, in un periodo, gli anni Ottanta, in cui non si viaggiava molto in quei paesi. Alloggiavamo sempre in un Ashram (luogo di riposo, ndr), sotto la guida dei principi di Gandhi. Sono cresciuta con questa filosofia molto pacifica e solare, ma senza avere idea che un giorno sarei finita per farci la mia casa. È successo quando, dopo aver vissuto a Singapore e poi a Hong Kong, ho cominciato a non sentirmi bene per via dell’inquinamento che c’è in quelle città. Ho lasciato tutto e a Bali ho trovato lavoro in una compagnia di gioielli locale, dove ho fatto pratica, capendo anche che è un posto di grandi artigiani.

A proposito di monili, parliamo di Emi & Eve, il tuo progetto di gioielleria sostenibile nato dopo un viaggio in Cambogia. Cos’è successo?
Era il 2012. All'epoca lavoravo per alcune aziende di moda, il cui approccio però non mi soddisfaceva affatto. Al desiderio di realizzarmi ho sommato quello di lavorare a progetti umanitari, solo che non avevo idea di come fare.

Perché umanitari?
Perché l’Asia è l’esempio lampante di come si possa essere in grado di vivere nella ricchezza, in città molto servite, mentre fuori c’è molta povertà e le persone vengono lasciate sole.

Quindi come hai fatto?
Una mia amica che frequentava spesso la Cambogia per lavoro mi ha detto di andarci perché lì c’erano, ed esistono ovviamente ancora oggi, molte associazioni no-profit che tentano di aiutare le persone locali a imparare i mestieri. In quell’occasione mi sono imbattuta in una famiglia che riciclava proiettili e mine, resti di guerra, per fare dei bijoux. Ho chiesto loro di realizzare un bracciale per me, da un mio disegno. L’ho postato su Facebook e molte persone mi hanno dato dei feedback positivi. Così sono tornata in quel di Hong Kong, dove ancora vivevo è lì ho disegnato, e fatto realizzare da loro, la prima collezione. Era arrivato il 2013.

Da questi bossoli nascono ancora oggi le tue creazioni.
Sì e sono sempre gli artigiani locali a realizzarli, da un mio bozzetto e prototipo.

Attraverso il tuo sito è possibile leggere le storie di queste famiglie di artigiani. Ti ricordi quella legata alla prima?
Sì, ed è molto simile ad altre storie locali. Il capofamiglia era un rifugiato in Tailandia, viveva in un campo di un’importante no-profit. È stato fortunato, erano gli anni Settanta. Ha potuto imparare diversi lavori, ma si è “innamorato” delle tecniche orafe, così si è messo a creare qualcosa. Quei pezzi di cui mi sono infatuata io la prima volta. E poi, se posso raccontartela, c’è la storia di Akira, il quale, inizialmente da solo e mettendo a rischio la propria vita, ha iniziato a raccogliere mine e bossoli, per poi farne dei gioielli a sua volta. Un filantropo ed ex-soldato statunitense che vive lì da anni l’ha incontrato e gli ha permesso di creare l’associazione Self Help che si occupa proprio di bonificare il territorio da queste armi belliche.

In Cambogia tu e i tuoi collaboratori avete adottato un ratto “anti-mina”, perché viene chiamato così?
Io l'ho fatto per un po' ma chiunque può farlo, esistono molte organizzazioni in merito. La mia si chiava Apopo. Usano i ratti, i quali non muoiono, ci tengo a specificarlo, perché sono molto leggeri e possono quindi mandarli attraverso i campi ancora non bonificati a rintracciare queste armi. Posso farlo perché applicano sul loro manto un radar che comunica direttamente con l’associazione. Lui appena trova una mina ci va sopra il radar lo segnala e, senza vittime, la no-profit fa brillare la mina.

Definisci l’idea dietro Emi & Eve come “lusso sostenibile”. In che senso?
La sostenibilità sta diventando sempre più una questione globale, anziché un topic. Le persone sono più consapevoli e se devono spendere lo vogliono fare non solo per l’oggetto in sé. Perciò voglio essere il più chiara possibile, intraprendere una comunicazione in cui si certifica che ogni elemento del gioiello è, appunto, sostenibile - dalle pietre ai metalli, e che i miei artigiani ricevano un adeguato stipendio oltre che siano in grado di lavorare nelle migliori condizioni possibili. È una questione di trasparenza e del raccontare una storia. Specialmente nella gioielleria, perché s’indossa, ti rende bella ed è portatrici di un significato. Noi abbiamo trasformato una situazione tremenda, e purtroppo è ancora così in alcune zone, in oggetti meravigliosi, i quali sono capaci di raccontare storie positive.

Però si parla tanto di “green washing”, non hai paura che Emi & Eve si confonda tra le tendenze?
Alcuni brand di gioielleria hanno intrapreso questa strada perché “va di moda”. A ma sinceramente non preoccupano. Per quanto mi riguarda si tratta di una questione non solo di business ma anche personale: le dedico tutto il mio tempo. Inoltre riciclare bossoli non è facile. Oltre alla Cambogia esistono molti altri paesi limitrofi, come Java, ad esempio, in cui è possibile rintracciare queste terribili armi. Dietro a questo approccio, inoltre, c’è un’idea che ogni essere umano dovrebbe sempre considerare: inviare un messaggio di pace.

Come nasce una tua creazione?
Disegno subito la forma, esercizio complesso perché il metallo delle mine e dei bossoli è molto difficile da plasmare. Dopo faccio realizzare un campione e da lì ne nascono altri tre, magari. Poiché la gioielleria per me è qualcosa che deve essere facile da indossare, quindi la questione della forma, delle sue curve, è essenziale. Spesso parto dall’idea di un anello, perché è più facile poi adattarlo a orecchi o collana. Penso poi molto con la texture e così parlo direttamente con gli artigiani, con le difficoltà che ti ho accennato prima. E da lì prende il via la collezione.

Come è cambiato il tuo lavoro durante la pandemia?
Non ho potuto fare molto purtroppo. Il giorno prima che chiudessero tutto ho dovuto decidere in un’ora se raggiungere in Australia o meno il mio compagno e l’ho fatto. Dopo il vaccino sono riuscita a tornare a Bali, dove anche qui ho parte degli artigiani, dal 2018, e dare via alla collezione che uscirà la prossima primavera. Tutto ciò prima di rientrare in Olanda, dove sono ora per motivi familiari. Ma presto tornerò a casa.

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