«Ah, voi giornalisti», mi dice con tono sornione, alla cena di una mitica griffe l'amministratore delegato, uno che non delega nulla. «Sempre lì a cercare il colpo d’ala, il nuovo genio, l’idea sconvolgente, l’abito-rivelazione. Non vi rendete conto che la gente mica si mette addosso l’arte. I soldi si fanno con gli abiti, sa?».

Lo slogan “vestiti veri per clienti veri” rientra nelle keyword più utilizzate per tacitare chi cerca di scrivere non stupidamente di moda. Ci viene offerta l’ostensione di una realtà che, non si sa perché, è sempre “cruda” ma soprattutto “lontana dalle vostre recensioni”.

Come se avessimo, chessò, sei braccia, le squame, la taglia 38 (o 46 per gli uomini) in dotazione perenne, non prendessimo mai i mezzi pubblici, considerassimo l’entrata di Zara ed H&M l’anticamera dell’inferno, lavorassimo alla reggia di Versailles e potessimo assumere coorti di maggiordomi, cuoche, governanti vivendo dentro case di cubatura illimitata in centro, ovvio (senza rancore: se fosse così, col cavolo che sarei qui a scrivere questo post).

Quando si fa presente che, insomma, non è proprio così e il nostro tentativo è quello di non ampliare l'accezione semantica del verbo “banalizzare” - magari lamentandoci di chi è stato fatto fuori per essere sostituito da signori/e Nessuno - la risposta è sempre la stessa, noiosa e prevedibilissima: «Il mondo è globale, i consumatori sono globali e quindi si deve rispettare il gusto medio, la sensibilità media, il desiderio medio». Ok, lasciamo stare cosa ne pensava Pier Paolo Pasolini, quando fa dire a Orson Welles cos'è l'uomo medio nel film La ricotta. Erano altri tempi, davvero.

Nell’ennesimo valzer di poltrone di queste ultime settimane nel mondo del lusso, dove sono stati eletti a “creative director” stilisti di cui a stento ricordavamo i nomi - figuriamoci le sfilate - mi è tornato in mente un saggio uscito la scorsa estate, La mediocrazia, del filosofo canadese Alain Deneault.

L’autore sostiene che oggi i mediocri - intesi come esponenti della medietà sociale - non solo hanno vinto in ogni campo delle umane attività, ma vengono cercati, scovati e premiati proprio per il loro essere né troppo né troppo poco: dei Maccio Capatonda a cinque stelle, adattissimi a ricoprire un ruolo cui, oggi, non si richiedono capacità rivoluzionarie, ma giusto blandamente creative. E visto che la verità è cruda, diciamola fino in fondo: di vestiti se ne vendono sempre meno.

I ricchissimi occidentali spendono molto, moltissimo: ma in viaggi, gioielli, opere d’arte. E nell’armadio hanno il cappotto vintage della zia, l’abito couture - come non se ne fanno più - della mamma indossato alla prima della Scala, il trench evergreen del papà. E anche i plutocrati orientali - quei russi, cinesi, malesi, mongoli, indiani - cui si pensava di rifilare i più costosi prodotti tessili, stanno imparando in fretta a selezionare, aspettare, magari ad acquistare durante i saldi o col 30 per cento di sconto sui siti di e-shop.

Perciò un direttore creativo eccezionale ma magari bizzoso e spaventosamente caro, non conviene più a chi deve lautamente stipendiarlo: troppo salato il conto delle sfilate, delle megapresentazioni, delle campagne pubblicitarie, di tutto l’ambaradàn che pretende perché venga valorizzato il suo lavoro. I fatturati s’inturgidiscono con le scarpe, cinture, profumi, bijoux e ninnoli vari: cioè tutte quelle cose che un tempo erano a traino dell’export vestimentario e ora, invece, ne sono il core business, riducendo i vestiti ad accessori degli accessori. Il rischio di fallire con una collezione bellissima ma che non venga acquistata dai buyer - con la conseguenza di ritrovarsela invenduta sul groppone - è elevatissimo. E nessun signore della Finanza è disposto a correrlo.

Intendiamoci: lo stilista medio, come l’artista medio, come lo scrittore medio, come il politico medio, non è sprovveduto né incompetente. Conosce l’andamento del mercato, ne interpreta gli umori col minimo sindacale di rielaborazione espressiva e produce standard asettici: non belli e non brutti, non orribili e non meravigliosi. I medi mediocri sono sempre pronti a collocarsi al centro, nel percorso già tracciato, senza mai mettere in discussione l’ordine prestabilito. Deneault parla di una “rivoluzione anestetizzante” della società. Finiamo in quello che il filosofo definisce con equilibrismo grammaticale «l’estremo centro».

Il mediocre deve essere un esperto ma il suo lavoro appartiene a un contesto che lascia agli uomini d’affari il potere definitivo, quello economico. Che impone di chiudere l’anno fiscale con un segno “più” davanti, e il prossimo anno si vedrà, magari cambieremo direttore creativo.

Sinceramente: oggi chi avrebbe più il coraggio di sostenere le spese di folli e fantastiche sfilate come quelle di Alexander McQueen o, di John Galliano per Dior (anche se quando disegna Maison Margiela ha libertà totale), di Hedi Slimane per il rilancio di Saint Laurent o, in passato, di faraonici show come quelli di Thierry Mugler o di Jean Paul Gaultier dove si poteva mandare in produzione un capo su trenta? I tempi cambiano, le mamme imbiancano e le libertà rimpiccioliscono, risciaquate nella lavatrice della storia, regolata su bollenti temperature politiche ed economiche.

Certo, facendo così, l’essenza del “fare moda”, sbiadisce, si scolora, diventa neutra e anodina, come un mobile Ikea d’alta gamma.

Però ci piace ricordare che i più grandi successi, anche commerciali, nella moda degli ultimi tempi, siano stati quelli che portano la firma di Demna Gvasalia per Vetements e di Alessandro Michele per Gucci, di J. W. Anderson per la sua linea e per Loewe. Autori di un’estetica tanto azzardata quanto individuale. Esprimendosi con un linguaggio tutto loro, e non genericamente “carino”, si sono esposti al pericolo di essere giudicati (e, con loro i Ceo dei brand che disegnano). E quindi si sono assunti il rischio di non vendere, o vendere poco.

Ma di vendere a chi, poi? Magari anche a quella medietà che sta scomparendo. Quela di un ceto medio e non mediocre che, se deve mettere da parte i soldi per un oggetto di lusso, forse preferisce un abito che diventa souvenir di un’epoca, memento di un momento.

Capisce, signor amministratore? Deleghi, deleghi. Magari farà più soldi.