Allora era vero. Allora quelle voci serpeggianti, quei gossip striscianti che la volevano malata, non erano invenzioni. E poi, c'era stato quel gesto (c'è sempre un gesto rivelatore, uno solo, che però dischiude mondi): alla sfilata Arts et Metiers di Chanel, che si era svolta nella hall dell'hotel Ritz il 6 dicembre scorso, la sua nemicamatissima Anna Wintour, direttore dell' "altro" Vogue, quello Usa, si era alzata dal tavolino dov'era seduta accanto a Karl, per cederle il posto. Perché, ammettiamolo: di Vogue che avessero un tale peso internazionale, un'influenza sugli addetti ai lavori e sugli addetti ai livori, ce n'erano soltanto due.

Quello di Franca Sozzani, italiana, e quello di Anna Wintour, inglese naturalizzata americana. Le altre edizioni non avevano il potere di incidere non solo sul fashion system planetario, ma sull'intera società. Ho ancora il suo primo numero da direttore, l'ho conservato. Era il 1988: sulla cover, Robin MacKintosh in camicia bianca di Ferré, ritratta da Stevan Meisel. E tre parole: "Il nuovo stile". Da allora, la moda non è più stata la stessa. O meglio: non è più stato lo stesso il modo con cui guardare la moda.

A Franca Sozzani, al netto di personali affinità o individuali disaccordi, va riconosciuto il merito di aver rivoluzionato il giornalismo visivo regalando un'ottica nuova a ciò che chiamiamo abiti e sono invece il guscio delle nostre esistenze. «Non si può sempre piacere a tutti e soprattutto non si deve», è stata un'epica affermazione. Lei ha reso Vogue Italia un brand internazionale, un marchio di visibilità di cui nessuna grande griffe, di cui nessun direttore creativo, di cui nessun amministratorte delegato poteva fare a meno, se voleva dimostrare di avercela fatta. Ha trasformato in leggenda fotografi come Steven Meisel, Bruce Weber, Peter Lindbergh, Ellen von Unwerth, Miles Aldridge, Craig McDean, Paolo Roversi. Ha valorizzato (e talvolta inventato) molti nomi importanti della moda italiana.

«Faccio un giornale così perché voglio essere presente dappertutto e l'italiano, nel mondo, non lo parla nessuno», disse in un'intervista al magazine Self Service. Era fatta così. Di poche parole, dotata di una feroce dolcezza che sposava il pragmatismo alla poesia, ha sconvolto la "bella" foto di moda iniettandole messaggi ecologici (mitico il servizio di Steven Meisel con una moribonda Kristen McMenamy glassata di petrolio, ispirato alla tragedia ambientale del Golfo del Messico nel 2010), estetici (indimenticabile l'editoriale con una Linda Evangelista posseduta dai demoni della chirurgia estetica o quello che riproduceva i gesti inconsulti di Britney Spears o di Lindsay Lohan nei massimi momenti di autoperdizione), sociali (è stata la prima a fare un numero con modelle e celebrity unificate dal colore nero della pelle, la prima a fotografare le plus size, la prima a scherzare con la sacralità del marchio con un servizio, Haute Mess, legato alle comunità black delle periferie Usa che si vestono bling bling e superkitsch). Tutte foto controverse, ma ormai impresse nell'immaginario collettivo.

Nessuno scatto era troppo forte, troppo esagerato, troppo provocatore.

Un bel traguardo, per una ragazza della buona società mantovana che si era fatta largo come una redattrice moda qualsiasi, rinunciando a un comodo status di «nullafacente di lusso», la cui vita avrebbe potuto essere catalogata sotto la voce "signora altoborghese dotata di ottimo gusto": il collegio delle Marcelline prima, il liceo a Milano poi, gli studi in Cattolica (Lettere, con una tesi in Filologia Germanica), il matrimonio, la maternità.

Invece è arrivata a parlare all'Onu, a relazionarsi con i nomi più prestigiosi dell'arte contemporanea, a ricevere premi su premi: l'ultimo è stato a Londra, dove il British Fashion Council le ha tributato lo Swarovski Awards for Positive Change per mano di un fin troppo commosso Tom Ford. Motivo: l'impegno nel promuovere la diversità anche nella moda e per il suo coinvolgimento nelle cause benefiche. Poi c'era Convivio, evento degno dei Charity Dinner hollywoodiani per raccogliere fondi contro l'Aids, e altre iniziative, come la cena dello scorso 13 dicembre a favore dello Ieo (Istituto Europeo di Oncologia), di cui era presidente. Non c'era: l'ha sostituita Livia Firth che ha ricordato come tra di loro si chiamassero "Adelina" e "Guendalina", le oche giulive negli Aristogattidi Walt Disney.

So da chi la conosceva bene che con la sua ciurma poteva davvero essere simpatica e ironica e non ieratica e lontana stile icona bizantina quando noi la vedevamo alle sfilate. Temuta, venerata, rispettata, la sua presenza impauriva ed esaltava. Era riconoscibile già dalla silhouette filiforme, sormontata dalla cascata di riccioli biondi sul corpo esilissimo come solo le donne di grande ricchezza economica e culturale possono vantare. Una figura imprescindibile di quel grande, magnifico e crudelissimo gioco che è la moda e l'industria che la realizza. Perché questo, oltre al dispiacere, è un altro punto dolente di ciò che riserverà il futuro: Franca Sozzani era tra le pochissime persone al mondo a potersene fregare del sistema moda perché ne era un giudice inesorabile. Un suo "sì" o un suo "no" potevano cambiare vite, stravolgere aziende, mutare destini.

Ha sempre portato avanti un'idea di italianità supercool e intellettualmente forte senza essere pedante, «perché a me delle tendenze non interessa nulla. Io non le seguo, le creo», disse una volta.

Ora è l'intera moda italiana, non solo Condé Nast - la casa editrice di Vogue - a sentirsi sgomenta perché non può più rifugiarsi sotto la sua ala protettiva. Sia chiaro: molti designer li ha plasmati, indottrinati, fatti crescere e portati sotto i riflettori.

Con i suoi contrasti, con i suoi servizi esasperati, con la messa in scena di posture estetiche anche disturbanti, con il suo uso così semantico della moda, la vita di Franca Sozzani, a guardarla adesso, ha espresso l'oltrepassare i confini in ogni campo e la simbolizzazione, violentemente elegante, di una pratica - quella vestimentaria - che riguarda tutti.

Ha imposto un ampliamento della grammatica dell'estetica capace di estendere i limiti del plausibile, di forzare la legittimità delle nostre percezioni, di mettere in dubbio il reale.

Auguri davvero a chi dovrà succederle, perché l'eredità che (ci) lascia è pesantissima. Diventare un'àncora in quella fluidità inquinata dalla caccia ai fatturati che è la sostanza della moda contemporanea.