Designer che vengono, designer che vanno. Fuori Alexander Wang, dentro Demna Vasalia da Balenciaga. Fuori Marc Jacobs, dentro Nicolas Ghesquière da Louis Vuitton. Fuori Frida Giannini , dentro Alessandro Michele da Gucci. Il fashion-system è la hall di un Grand Hotel del Gusto, in cui porte girevoli fanno entrare e uscire creativi di grande caratura, avvitati con un'avidità senza pari al passato di gloriose maison che devono vivificare, rinnovare, rimpolpare. Ovvero: sono chiamati a fare soldi, il più velocemente possibile e in massima quantità immaginabile. Per realizzare fatturati che devono essere sempre maggiori, da raggiungere con abiti, accessori, profumi, prime, seconde, terze linee, capsule collection, apparizioni a sorpresa di merci griffate. Tutte cose da far piombare su un mercato del lusso che sta dando indubbi cenni di stanchezza.

Guarda caso, la notizia che Raf Simons abbandoni volontariamente Dior capita proprio quando gli ultimi dati economici dimostrino che i marchi d'alta gamma stiano soffrendo per due ragioni: a) c'è un'eccessiva offerta di prodotti perché il capitalismo più efferato ha imposto ai grandi brand di prendere a modello la modalità della moda low-cost: ogni mese, sputare qualcosa di nuovo da piazzare in vetrina; b) di fronte a questa sovrabbondanza di oggetti, nei fatti i guadagni veri si fanno con le vendita di un solo modello di borsetta, di scarpe o di occhiali da sole. Se non becchi l'"it-qualcosa" stagionale, bye-bye. O comunque la tua bravura sarà messa in discussione.

Siccome, però «la moda non è arte, ma ha bisogno di un artista per mandarla avanti», come diceva il mai troppo lodato Yves, si dà il caso che stilisti di ricche letture e di profonda cultura siano sottoposti a tali e tante pressioni (emotive, professionali, mediatiche) da rischiare l'esaurimento psicofisico. Chi scrive ha la fortuna di aver collaborato alla mostra del fiorentino Pitti Raf Simons Redux, prima celebrazione di un pensatore, prima ancora che un creatore. Lo stilista belga ha inaugurato una silhouette maschile che è discesa in linea diretta da quella filosofia della sottrazione innescata da Helmut Lang e Martin Margiela. A sua volta, lui è diventato un punto di riferimento per altri designer. Da sempre indaga tra le subculture e le culture ufficiali, e quando si sganciò per un paio d'anni dalla moda, si è trasformato in gallerista e conoscitore d'arte. È una persona la cui competenza si estende a cinema, musica, movimenti giovanili e e nuove correnti artistische. Lo si vede nel docufilm Dior and I. C'è una scena, bellissima, in cui lui arriva nel mitico atelier d'alta moda di Avenue Montaigne e fa chiedere al CEO dell'azienda di non farsi chiamare «Monsieur» dalle sarte, ma semplicemente «Raf». Non è democrazia. È disagio.

Quando l'ho conosciuto, la mia personale sensazione fu quella di avere a che fare con un intellettuale per cui la moda era un distillato di saperi condensato in forme. Sono processi creativi che richiedono riflessione, elemento inconciliabile con l'elemento "tempo" che domina la produzione delle Nestlé dello stile. Non ha voluto farsi stritolare, dice Cathy Horyn, giornalista e sua grande amica, da un sistema che richiede ritmi parossistici, estremi.

A me piace leggerla come un'elegantissima forma di protesta: ha dimostrato di saper fare magnificamente bene l'Haute Couture come il menswear d'avanguardia, è un esempio di come un cervello possa connettere piani cognitivi differenti. Alla stampa ha detto più volte: «Quando non avrò più idee, mi fermerò. La moda non è l'unica cosa a rendermi felice». Beh: si è fermato.

Forse non ha voluto mettere a rischio la propria salute. Prima o poi dovremo parlare, come hanno già fatto (qui) dello fusione neuronale che ha portato Christophe Decarnin (qualcuno se ne ricorda?) dalla resurrezione di Balmain alla sua inumazione, da vivo, in un ospedale psichiatrico. Bisognerà scrivere della tragica fine di Alexander McQueen e di Isabella Blow e delle ancor più tragiche parole pronunciate da un John Galliano incapace di intendere e volere ai tempi in cui disegnava, per l'appunto, Dior.

Ora: che al posto di Simons vada Phoebe Philo, Riccardo Tisci, Maria Grazia Chiuri senza Pierpaolo Piccioli, Pierpaolo Piccioli senza Maria Grazia Chiuri, Chitose Abe (che disegna Sacai), Joseph Altuzarra, Giambattista Valli o altri eccezionali designer, scusate. Ce ne occuperemo a tempo debito. A me spiace che la moda abbia perso - temporaneamente, spero - uno dei suoi diffusori più intelligenti, sensibili e realisti.