Dopo la festa dei 50 anni di Ralph Lauren, il ritorno di Proenza Schouler e di Rodarte, anche la fashion week di New York ha cercato di rialzare la testa e acquisire un rinnovato glamour dopo varie, afflosciate stagioni.

Ora con la desiderabilità della grande festa e, insieme, l’inquietudine del possibile arrivo di un ciclone, lievitano le aspettative intorno ai due grandi eventi della moda, che poi in realtà sono tre.

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Hedi Slimane.

Ovvero: la prima sfilata uomo e donna di Hedi Slimane per Celine (senza l’accento: nessuno come lo stilista italo-tunisino ha capito come le denominazioni delle cose siano la cosa stessa. Come aveva fatto in precedenza con “Saint Laurent” elidendo “Yves” e, prima ancora, con “Dior” cancellando Christian: ciò che è nuovo deve avere un nome nuovo); il debutto londinese di Riccardo Tisci da Burberry, dopo anni di vagabondaggio di lusso, in cui si era sicuri che sarebbe andato da Versace a ricoprire il ruolo di Donatella.

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Riccardo Tisci, nuovo direttore creativo di Burberry. E sotto la sua interpretazione del classico poncho della maison.
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E infine la sfilata del 24 settembre a Parigi di Gucci, nello storico Théatre Le Palace di Parigi: lo show rappresenta l'ultima tappa di un omaggio alla Francia in tre parti, iniziato a gennaio con la campagna pre-fall che richiamava le proteste studentesche del maggio 1968, seguito dalla sfilata Cruise 2019 ad Arles (30 maggio 2018). Ed è strano che dentro Le Palace (che «entra in risonanza con la visione della maison in quanto luogo che ha dato vita a una subcultura che ha ispirato, sino ad oggi, i giovani», dicono da Gucci) si sia svolta anche la festa per i 50 anni di Slimane a luglio scorso.

Prima considerazione: ah, Parigi è sempre Parigi. Seconda considerazione: ahi, Parigi è proprio sempre Parigi! Le grandi manovre erano iniziate a marzo scorso, quando il presidente Emmanuel Macron ha invitato a cena Anna Wintour, Pierpaolo Piccioli, Maria Grazia Chiuri, Virgil Abloh, Christian Louboutin e molti altri stilisti, giornalisti e operatori nella moda d’alto livello al palazzo dell’Élysée, proprio per una “chiamata alle armi” al fine di trasferire, abiti e bagagli, il business in terra francese. Naturalmente è stata una mossa strategica sottovalutata al nostro attuale governo, laddove il precedente aveva timidamente tentato di connettere imprenditoria dell’abbigliamento e mondo della politica. Seconda considerazione: anche Londra, dopo alcune stagioni di melanconica latitanza di nomi “forti” sta cercando di richiamarne qualcuno all’ovile, e in mancanza di questo, punta su nomi strani, bizzarri, giovani, azzardati.

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Victoria Beckham al termine di una sua sfilata.

E comunque, è nella capitale britannica che Victoria Beckham ha scelto di celebrare il decimo anniversario del suo marchio, compresa la copertina su British Vogue e l’annuncio di una sua prossima presenza su Netflix (un docu sulla sua vita?).

Londra tornerebbe così a essere l’epicentro di una cultura del vestire che alla prima occhiata sembra demenziale, ma viene poi addomesticato e adottato anche dalle griffe straniere, così com’è stato negli anni 80 e 90, quando Londra era La Mecca del Nuovo con Alexander McQueen e John Galliano, che tutti correvamo a vedere perché la moda inglese non può, al contrario nostro, contare su una filiera industriale in grado di garantire una grande produttività.

A Milano, i nomi nuovi sono compressi, l’ultimo giorno e mezzo, in cui non li vedrà nessuno dei grandi giornalisti perché saranno già in volo per andare da Dior. Come al solito – che barba, che noia! – i grandi nomi sono compressi in tre giorni, quelli utili alla stampa americana per tagliare con l’accetta giudizi saccentelli e talvolta spietati come quello del New York Times, dal titolo “Does Milan Matter?”, uscito a settembre 2017. In questo momento l’immagine dell’Italia è fortemente compromessa agli occhi del mondo, e di certo una maggiore coesione dei fashion designer italiani di fronte a un’emorragia di talenti farebbe bene a un Paese (il nostro), che ha bisogno di una buona p. r., prima di tutto.

Ma di cosa stiamo cianciando? Gli stilisti italiani non hanno mai fatto sistema, ma si sono sempre assicurati un posto al sole alla faccia dei colleghi. Errore, certo. Errorissimo. Ma da quanto ne parliamo, noi del settore? Citando Marino Niola, ci si potrebbe chiedere se la Grande Depressione di questi ultimi anni debba portare a chiederci: “Se l’economia fa la società e la società fa le persone, che persone stiamo diventando?”.

Dopo anni di convivenza con la crisi, con una crescente disoccupazione, con la riduzione dei salari, l’aumento delle tasse e l’euro boccheggiante noi italiani siamo decisamente una società sull’orlo di una crisi di nervi. Non si può più aspettare: si devono affrontare i segni di una trasformazione che non riguarda solo il nostro avere, ma anche il nostro essere. Una vera mutazione antropologica, una svolta dei nostri abiti e abitudini, usi e costumi. E anche consumi. È giunto il momento di effettuare una riduzione dello spread emotivo tra un’azienda e l’altra. Altrimenti rischiamo di diventare la patria del terziario che produce per gli altri, ma a casa sua non produce più idee. E no, non bastano delle cuciture fatte bene per ricucire uno strappo d’immagine che ci stanno e ci stiamo procurando.

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Phoebe Philo al termine di una sua sfilata: ufficialmente lascia il lavoro per seguire la sua famiglia.

Sarei felicissimo di vedere una meravigliosa collezione di Celine (senza accento) affinché le “Philofiles” (le clienti legatissime a quello stile adulto, pratico, sofisticato e un po’ irritante di cui solo Phoebe Philo conosce la ricetta); un eccezionale debutto di Burberry di Riccardo Tisci, che è oggettivamente bravissimo; una fantastica collezione di Gucci, dietro giuramento (come è stato fatto) che da marzo si ritorna a presentare a Milano. Dove nel frattempo sarebbe buona cosa vedere sfilate ricche di quegli eventi mentali che chiamiamo idee.