È guerra aperta. Alla sontuosa serata dei Green Carpet Fashion Awards Italia che ha concluso la Settimana della moda milanese, mondanissima manifestazione destinata a promuovere le aziende che si distinguono per i loro prodotti eticamente corretti e rispettosi di ambiente e dipendenti, il Presidente della Camera della Moda Italiana Carlo Capasa passa al contrattacco. E sciorina cifre e dati che riguardano il lavoro di sarte e lavoratrici tessili che lavorano in nero negli Stati Uniti. È la sua risposta al non tenero articolo del New York Times dal titolo Inside Italy’s Shadow Economy, un'indagine dentro l'economia sommersa del fatto in Italia. Il Paese dove, secondo le giornaliste Elizabeth Paton e Milena Lazazzera, si arriva a pagare in Puglia una sarta un euro all'ora per ricamare un cappotto che di euro, in boutique, ne costerà migliaia.
Argomento scottante, di cui però, si era già a conoscenza, visto che sia Milena Gabanelli, sia Riccardo Iacona avevano già affrontato il problema nelle loro trasmissioni Report e Presa diretta. Sia chiaro: non vogliamo sminuire la gravità del fenomeno, che deve essere ulteriormente approfondito. Ma l'inquietante tempistica dell'autorevole quotidiano americano che fa esplodere la bomba mediatica proprio durante la fashion week di Milano non è sicuramente casuale. Come avevamo già scritto, qui si vanno affilando le armi. E riporta a galla l'aggettivo politico che paradossalmente, è stato accostato a molte sfilate di questa striminzita edizione che di politico non avevano proprio nulla. Un esempio? Prada, autrice di una gradevolissima e fresca collezione, dove Miuccia rielabora la sua metodologia consueta (ribaltare i canoni del vestire“perbene”, questa volta partendo da tessuti e forme da signorina borghese anni Sessanta a cui procura elementi di disturbo) che fa pensare più a una riflessione generale su ciò che significhi essere donna in generale - e sentirsi scissa tra usare il sesso come un'arma e non subirlo come una minaccia - piuttosto che a una riflessione sull'abbigliamento ai tempi del post #MeToo.
La vera politica è altrove, appunto: negli sgambetti del calendario francese a quello italiano; nel relegare i nomi“giovani” molto interessanti (tre per tutti: Calcaterra, Francesca Liberatore e Marco De Vincenzo, li vedete sopra) nei giorni più ingrati della manifestazione; nel trumpismo spinto che porta a schizzare di fango - e magari a pensare a dazi puntivi -l'industria della moda di altri paesi, laddove nel proprio c'è la totale latitanza di idee.
Sono stato molto attaccato dal mio hater di riferimento perché parlo di moda italiana, invece di moda internazionale, visto che secondo lui non ha più senso parlare di capitali della moda, ma di un'estetica globale dove una città vale l'altra.
Io ci terrei tantissimo a dargli ragione, ma è la realtà che non dà ragione a lui: l'aspetto politico delle sfilate appena viste non è tanto nel loro “messaggio”, quanto nell'essere strumentali a economie strettamente connesse a poteri anche molto forti, che nella moda intravvedono investimenti assai redditizi: vedi la notizia di oggi di una possibile vendita di Versace. Sarebbe un vero peccato, perché proprio gli show di Versace, Emporio Armani (che si è svolta in una tonitruante serata all'aeroporto di Linate, come vedete in apertura), Dolce & Gabbana e Missoni - quest'ultimo forse il più commovente, perché celebrava i 65 anni del clan più fantasioso dello stile italiano - sono stati veri e propri atti di forza eversiva e spettacolare, clamorosi nella loro grandiosità, epici nell'organizzazione e nella quantità di proposte. Sfilate-evento magniloquenti, leggendarie, che entreranno nel repertorio dell'«io c'ero», ma anche rivolte a dare un'immagine di Milano, e di conseguenza dell'Italia, positiva, dinamica, perfino un po' antigovernativa. A giudicare dalla copertina di Time con il ritratto di un Salvini luciferino corredato di compagna molta bella ma che in tv avrebbe bisogno di una revisione vestimentaria.
Più in generale, dopo un inizio in sordina anche l'atmosfera si è fatta più lieve, ottimista, festosa: niente a che vedere con il boom craxiano degli anni 80, ovvio. Però si avvertiva una timida allegria che si è riflessa in collezioni lievi, volatili, mercuriali. Portabilissime. Da Fendi a Giorgio Armani, da Alberta Ferretti ad Alessandro dell'Acqua per N°21, l'inevitabile rivisitazione del fascino borghese - che era già nell'aria - ha conosciuto declinazioni in forme fluide, abiti lunghi e molto castigati, prevedibilissimi spolverini e un'aria di serena castità, da un lato benvenuta, dall'altro un po' inquietante nel richiamare la figura di Offred in The Handmaid's Tale.
Sono abiti che sicuramente vanno incontro anche a una fascia di mercato che, oltre ai famigerati Millennials, racchiude anche signore che coltivano la moda modesta: modesta in tutto, ma non nei prezzi. Dunque,in un rovesciamento paradossale - ma non troppo - dello slogan sessantottino "tutto è politica", le aziende hanno operato una perniciosa metamorfosi in cui tutto è merce-spettacolo. Compresa la politica.
E considerando i bagni di folla - una vera psicosi collettiva confinante nel delirio - che ha circondato ogni apparizione pubblica di Chiara Ferragni, salutata con più isteria di una diva hollywoodiana, i riti dell’apparire sociale di quel mondo effimero in cui rientrano le mode non è una forma minore di realtà ma l’assetto sensibile della società dove si giocano e si vendono le immagini che le persone hanno reciprocamente di se stesse.