Quando leggerete questo articolo, avrete già letto tutto sull'acclamato genio, sulla perdita incolmabile, sulla sconfinata grandezza creativa di Karl Lagerfeld, potente e insostituibile faro dell'estetica del '900 e del primo ventennio dei Duemila. Così vulcanico nel suo incessante fuoco pirotecnico di idee emesse senza sosta da rimproverare aspramente i suoi colleghi che, non reggendo il ritmo dell'attuale produzione, si lamentano di sentirsi prosciugati: «Se non ce la fanno, stiano a casa». Che, detto da uno che disegnava ininterrottamente per Chanel, Fendi, la sua linea e varie collezioni sparse durante l'anno, non è proprio una cosetta da nulla.

Un uomo coltissimo che parlava con disinvoltura cinque lingue, collezionista compulsivo di libri, oggetti d'arte e di design, così ineffabilmente raffinato da dire sempre quello che pensava, proprio per evitare lo sbadiglio causato dall'odiato politicamente corretto, la cosa che lo spaventava di più.

John Fairchild, fondatore del Women Wear Daily, lo aveva inserito tra gli otto stilisti (insieme con Giorgio Armani, Valentino e Coco Chanel, quella vera) che hanno ridisegnato la storia e il corpo delle donne, nel libro fondamentale Chic Savages, i "selvaggi dello chic". Eppure la dote per cui lo considero davvero eccezionale, è stata la capacità di essere, sempre e contemporaneamente, fuori e dentro dal mondo.

Nessun altro, neanche l'eterno rivale Yves Saint Laurent, il nemico-amatissimo con cui si era condiviso il corpo e il cuore di Jacques de Bascher (aveva vinto Karl, naturalmente) ha mai parlato alla stampa con una sincerità al limite dell'offensivo, con un abrasivo senso della realtà, rispondendo a domande scomodissime anche sulla sua vita. Roba che se le facessimo a uno stilista qualsiasi, verremmo giustiziati dallo stilista in persona.

In una memorabile intervista concessa nel 2010 a Bruce LaBruce, regista di porno underground d'autore a Vice Magazine, Lagerfeld alterna citazioni di SpinozaOgni decisione, alla fine, è un rifiuto») e di MarcuseLa felicità e una vita confortevole sono indecenti»), prende alla lettera l'interlocutore che gli chiede se non pensi di avere la Sindrome di Asperger («Forse sì. Non sono una persona ordinaria»), fino alla considerazione che è meglio dormire con un assortimento di “high-class escort” invece che con gli amici,«perché l'attrazione fisica può non durare, ma l'affetto ha più speranze nel tempo. Penso sia più salubre per tutti. E, siccome vivo da ricco, questo mi è possibile. I poveri? Guardino i porno».

Abitava la contemporaneità come un abito da lui disegnato e realizzato su misura, sempre a proprio agio nel proprio tempo, sempre profondamente immerso in un presente continuo che lo portava a considerare il lavoro fatto venti, trenta o quarant'anni prima come brutto, sgraziato, sproporzionato, «ma si sa, la moda è fatta così».

Ha sperimentato di tutto, sempre però mantenendo un'aura di riserbo impenetrabile: ha fatto l'attore con Andy Warhol («il miglior p.r. di se stesso), ha imparato a scattare perché non trovava fotografi abbastanza bravi per le sue campagne pubblicitarie, ha ideato lavorazioni impensabili, ha coinvolto Pharrell Williams e il Metropolitan Museum di New York, Kristen Stewart e Caroline di Monaco, perché «comunque facciamo parte tutti della stessa cultura».

Con Lagerfeld non solo scompare una delle menti più brillanti della cultura, ma anche un vero intellettuale che non aveva paura di sporcarsi le mani o di cadere quasi nel ridicolo (come quando si era sottoposto a una dieta così drastica da fargli perdere 40 chili, pur di insinuarsi negli abiti di Hedi Slimane per Dior Homme), in grado di parlare sia alle principesse sui troni, sia alle ragazzine di periferia.

Era sempre sintonizzato sull'aria dei tempi, con quel suo tono distaccato, ironico, autodenigratorio e sofisticatissimo, impossibile da imitare. Lo sapeva, di essere impossibile da imitare. Chi altro avrebbe agitato un ventaglio come lui? Chi altro avrebbe fatto i suoi capricci e, nello stesso tempo, rispettare date e consegne? Chi altro avrebbe osato essere così insolente e così generoso, quando in tv dichiarò di voler rinunciare alla cittadinanza tedesca perché contrario alle politiche sulla migrazione della Merkel (intendiamoci: odiava i nazisti come i comunisti, era un «anarchico con tanti soldi». Condizione invidiabile).

C'è una scena, meravigliosa, nel biopic dedicato a Valentino, L'ultimo imperatore: quando abbraccia lo stilista italiano, Karl gli sussurra all'orecchio: «Siamo rimasti solo noi due a sapere come si fanno certi vestiti!», ma è una dichiarazione che è uno stato di fatto, senza nostalgia né sdolcinatezze. Il bello è che dalla couture di Chanel passava a disegnare una t-shirt con Choupette da vendere a poche decine di euro per la sua linea omonima: del resto è stato lui a inaugurare le collaborazioni tra designer del lusso e fast-fashion: nel mio armadio, deve essere appeso un blazer della sua collezione per H & M.

Il rigore e la passione, l'ironia e il rispetto, la tradizione e l'avanguardia: non c'era nulla che non lo appassionasse, che fosse un fumetto di pulp fiction o l'ultimo iPad Pro. Si mette in scena nel film Lagerfeld Confidential (2007), riveste di nuovo la sua adorata bottiglia di Coca-Cola Zero di cui si droga per non mangiare, offre opinioni esatte e cattive ma precise e appuntite: «Penso che i tatuaggi siano orribili, è come portarsi un vestito di Pucci addosso per tutta la vita». Ma nel non nascondere nulla, in realtà Karl ha rappresentato un esempio di vita che non subisce le conseguenze della realtà, ma le cavalca e le doma.

«Il faut être absolument moderne»,si deve essere assolutamente moderni, sosteneva Arthur Rimbaud, poeta da lui molto amato. Eppure nessuno ha mai oltrepassato la cortina sulla sua vita solitaria, nessuno ha mai conosciuto il vero Karl,se non forse la famiglia d'origine. Forse, in gioventù, qualcuna delle sue muse amiche. Così come non sapremo esattamente quando sia nato (c'è chi dice che abbia fatto manomettere la pagina Wikipedia a lui dedicata), così se ne è andato nel mistero del giorno della sua morte.

Ma è davvero così importante?

Quel mistero va celebrato nella luce dell'intelligenza che si fa abito e abitudine.