Se siamo arrivati a conoscere solo con il loro nome Christy, Linda, Kate, Cindy, Nadja, Naomi, Tatjana (solo per citarne alcune), come micce per innescare un periodo storico irripetibile, quello dei primi anni 90, che s'incarnò letteralmente nei corpi delle top model, il merito è stato soprattutto suo.

L'ultima volta che ci eravamo incontrati è stata per la grande retrospettiva, dedicata a oltre 40 anni di carriera, alla torinese Reggia di Venaria: si chiamavaA Different Vision on Fashion Photography, 220 tra le immagini più importanti dal 1978 a oggi, con alcuni scatti inediti e appunti personali, elementi di allestimenti scenografici, polaroid, provini, film e gigantografie. Non era stata una chiacchierata tranquilla.

A Peter Lindbergh, che detestava i social e tutti i loro derivati, a cominciare dai selfie, il sistema della comunicazione di moda attuale proprio non andava giù. «Mi accusano sempre di aver fotografato solo donne bellissime, ma quello che io ho sempre cercato è stata la singolarità di ognuna, l'individualità, il carattere. Se mi dovesse chiedere quali ritratti preferisco di tutti coloro che sono state davanti al mio obiettivo, non avrei dubbi: le indicherei quelli di Pina Bausch».

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E, in effetti, la sua visione della femminilità era stata soltanto rivoluzionaria, per quei tempi. Ha creato un linguaggio visivo che oggi appartiene alla cultura collettiva. E se oggi ripensiamo alla sua estetica - solo bianco e nero, zero ritocchi, make-up ridotto all'essenziale («sul set urlo: Basta trucco! Basta trucco!»), spesso concentrato intorno a occhi stanchi circondati da un'aureola nerofumo, la scelta di sfondi neutri o di paesaggi quotidiani, strade, spiagge, stanze disadorne - possiamo capire meglio come lui cercasse di rifondare un “esser donna” laccato e patinato, quello che andava per la maggiore quando lui arriva sulla scena internazionale, negli Ottanta. Ed è sempre stato così diverso dagli altri che un suo ritratto è riconoscibilissimo tra mille, non solo per l'intensità di sguardi e volti, ma anche per la libertà di movimento a cui lui conduceva le indossatrici, fino ad allora impalate in pose statiche con braccio ad anfora e una gamba di fronte all'altra.

Su un mercato saturo di belle signorine in bei vestiti senz'anima né convinzione, contrapponeva ragazze forti, consapevoli, assertive: leggendario il gruppo - Estelle Léfebure, Karen Alexander, Rachel Williams, Linda Evangelista, Tatjana Patitz e Christy Turlington – che nel 1988 ritrae a Malibu mentre giocano, si accapigliano, ridono e scherzano come bambine in gita al mare. Lindbergh ha ridefinito il concetto di gradevolezza fisica partendo dal liberarsi di tutti gli atteggiamenti che venivano e vengono imposti dal mondo della moda di lusso, concepito come universo dorato e immobile concentrato sul valore degli abiti e non delle persone.

Certo, in tutto questo, era figlio decisamente fiero della sua cultura tedesca, anche se nei fatti era un francese adottivo («Beh, se qualcuno guarda il mio lavoro non pensa certo che io sia nato a Napoli o a Firenze!», disse). Nato a Duisburg 74 anni fa, cresciuto a Berlino e poi trasferito definitivamente a Parigi, nelle sue opere c'erano echi dei ritratti di August Sander, delle disperate eroine del teatro di Frank Wedekind, della scioltezza dei gesti di Pina Bausch (appunto), del rigore della Bauhaus, del cinema di Fritz Lang, il regista di Metropolis. Una sua cifra stilistica che, nel 2017, lo aveva portato a realizzare l'edizione di quell'anno del calendario Pirelli in modo un po' diverso dalla solita equazione mese = bellona di turno: aveva scelto un gruppo di attrici (più una professoressa di scienze politiche), tutte vestite e con un’età compresa tra i 27 e i 71 anni. Ed era ancora attivo e brillante fino a pochi mesi fa, visto che ha partecipato all'edizione di Vogue inglese con Meghan Markle come Guest Editor.

E questo volontario non allinearsi alla moda di certi anni renderà le sue immagini eterne, potenti, indimenticabili. «Devo ammettere che sì, provo parecchio orgoglio a non aver mai cambiato il mio modo di lavorare, anche contro chi mi dice che magari sono bravo, ma tendo a ripetermi. Sono io, è il mio modo di guardarmi intorno e di osservare gli altri, perché dovrei cambiare? Per usare Photoshop?!». E nessuna, davanti al suo obbiettivo, temeva di sembrare più vecchia, o scomposta, o scarmigliata: Kate Winslet mostra le mani, quella parte del corpo che non può mentire sull’età, Kate Moss mostra con orgoglio le prime rughe intorno agli occhi, Uma Thurman è spettinata. Per la prima volta, in un ritratto “ufficiale”, ci sembrano vere.

Amava profondamente le femmine, su questo non c'è dubbio. Tanto che oggi, a firmare il comunicato ufficiale della sua morte sono in due: la moglie Petra e la prima moglie Astrid, più i suoi quattro figli e i sette nipoti (ma tra gli addetti ai lavori si racconta di una sua lunga relazione con la musa par excellence, la top Nadja Auermann, anche lei tedesca). Ogni sua foto è una dichiarazione d'amore a loro, muse, ispiratrici, oggetto e soggetto delle sue composizioni visive. Le adorava per come erano, e non per come avrebbe potuto trasformarle. Be Yourself and Real era il suo mantra.

Citava spesso una frase di un’altra fotografa gigantesca, Diane Arbus: «Quando mi metto davanti a qualcuno, se voglio un’altra angolazione, non chiedo mai di spostarsi. Mi sposto io. Il soggetto non deve sentire la presenza del fotografo».

In uno statement nel catalogo della mostra, ho trovato una frase chiarificatrice: «Oggi si tende a dare alle donne un ruolo di ambasciatrici di bellezza e perfezione. Ho sempre pensato che c'è una bellezza sempre differente a seconda di ogni persona, più reale e veritiera, non manipolata da interessi commerciali, una bellezza che parla all'individualità, al coraggio di essere se stesse, e di seguire la propria sensibilità».