Somerset House, una giornata uggiosa di metà settembre. Una coda bionda in ordine ma non troppo, un viso attento e no make-up, un maglioncino girocollo bianco latte, due fedi sottili e una missione: levarci ogni dubbio su cosa indossare la mattina. Rebekka Bay è una donna danese con occhi di ghiaccio e cuore di cashmere responsabile della frase che il 90% delle donne di New York, Londra, Parigi, Tokyo e ora (finally) Milano pronuncia da ottobre in poi “tanto poi sopra metto un bel maglione di Uniqlo”. La Bay, che precedentemente ha ideato il casual look di Cos, Gap, Everlane e Marimekko, è Creative Director di Uniqlo ovvero disegna le linee che concepiamo come evergreen, linee che lei stessa vuole restino “senza stravolgerle, semplicemente miglioriamo il ciclo produttivo, ricerchiamo materiali migliori, mettiamo in pratica soluzioni per il pianeta”. Tutto questo è riassumibile in una parola, LifeWear, neologismo uniqloiano che in questi giorni a Londra è diventato una mostra di capi che raccontano l’evoluzione del colosso (gentile) giapponese, The Art and Science of LifeWear (purtroppo solo fino al 22 settembre alla Somersethouse di Londra ma una rivista che trovate nei negozi Uniqlo racconta tutta la filosofia che vi è dietro). L’intento non è quello di celebrare un brand di per sé (ne avrebbe bisogno?) quanto dimostrare che ciò che indossiamo vive con noi, non ci abbiglia tour-court per poi finire nel dimenticatoio alla fine della stagione.

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James North

“Cerchiamo di mettere davvero in pratica il concetto di seasonless, se mi chiedi qual è la più grande sfida per una donna che disegna per le donne ti rispondo che è creare capi che possano vivere una quotidianità in divenire: dal brutto tempo improvviso al comfort del corpo. Capi che ci permettano di fare tutto con estrema serenità. E stile”. Come trovare lo stile in un pullover girocollo blu? Come abbinare un dolcevita grigio da intellettuale bigio? Di quanti piumini Uniqlo leggerissimi necessiteremo in una vita? “Per essere davvero vissuto un capo deve essere studiato alla perfezione: anche su un nostro bestseller continuiamo a studiare, analizzare, capire”. Jeans panna, sguardo dritto nel tuo, Rebekka Bay non racconta unicamente il mondo sartoriale del marchio fondato nel 1949 e diventato il brand più “sos” del mondo (per la serie: rifugiarsi in un negozio Uniqlo quando tra il contenuto della tua valigia e il termometro sballano 15 gradi): la sua urgenza è di allontanare il concetto di fast fashion stilistico dal nome Uniqlo. “Lifewear è questo: circolarità del capo, maglioni, t-shirt, jeans che ti semplificano la vita” ma senza appiattire la personalità “per anni abbiamo abusato del termine minimalismo dandogli i connotati errati, semplificato ai minimi termini quando, invece, parliamo di un processo molto complicato che ha il fine di portare all’eccellenza un capo, massimizzare la sua performance affinché resti a lungo”.

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James North



I piccoli grandi capolavori di uso quotidiano guarniscono i nostri armadi ma sono anche l’abc della nostra cucina stilistica: in una sala/carrillon della mostra cinquanta lampade ricoperte di calzini colorati ci ricordano quanto un accessorio sottovalutato sia l’inizio del nostro vestirci e sicurezza di comfort. I piumini di Uniqlo sono un’altra parola composta del lessico famigliare dei viaggiatori: strati di impercettibile peso per dichiarato calore che presto troveranno anche una soluzione per il loro impatto sul mondo perché l’interno dei layer verrà riciclato direttamente in store, per vivere in un’altra forma sempre targata Uniqlo.

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MARC SETHI

Una giovane collega tedesca picchia sul tasto più nero del pianoforte di qualunque colosso dell’abbigliamento: “come siamo messi a responsabilità sul cambiamento climatico?” Rebekka si illumina e accetta la sfida “cercare soluzioni sofisticate per migliorare il nostro impatto sul pianeta è una priorità: i cambiamenti climatici influenzano come ci vestiamo, non solo in termini di cosa indossiamo” Il riassunto potrebbe essere: dobbiamo alimentare il mercato certo, siamo un’azienda con un business ma non dobbiamo alimentare un consumismo senza etica: un buon maglioncino blu deve poter durare fisicamente e ideologicamente quanto un maglioncino blu costosissimo. In questa etica affonda anche la voce lavoratori che in una catena così complessa rischiano di sprofondare nell’oblio. Silvia, Pr manager di Uniqlo per l’Italia, mi racconta di come sono state selezionate le persone per le vendite dello store di Milano: culture differenti, programmi per inserire rifugiati nell’azienda, controlli nella filiere di produzione che devono migliorare le vite dei dipendenti costantemente.

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James North
JW Anderson per Uniqlo

Nel 2019 è innegabile che acquistare prodotti online sia un deterrente per risparmiare tempo e apparente scelta ecologica - non sempre vera visti gli imballaggi e i motori / persone per recapitare il prodotto a casa. Non a caso l’apertura del primo negozio di Uniqlo in Italia, a Milano, è stata vista come una scelta tutt’altro che anacronistica. Domando alla Bay quanto sia importante dare ancora al cliente la possibilità di vivere un’esperienza dove anche i muri fanno parte di una filosofia (alcune superfici sono in argilla per essere modificabili senza inquinare) “hai risposto da sola alla domanda. Vivere un negozio come una community, anche questo è LifeWear, negozi con angolo relax, prodotti che siano esposti per essere provati, osservati, non acquistati con frenesia”.



Qualche ora dopo siamo in un ristorante giapponese (scelta non voluta, istinto e ispirazione) a parlare con il team italiano di Uniqlo dell’arrivo nostrano di quello che è stato un Godot della moda pop: saremo pronti a capirlo e a viverlo come vorrebbe il suo creatore Tadashi Yanai che a Londra, con elegantissima moglie a fianco, ha stretto la mano a streetartist che firmavano t-shirt da collezione? Alessandro Poggi, marketing manager di Uniqlo Italia con un anima da chef esperienziale, risponde ordinando uni adagiato su riso e lenzuolo di alga: “assaggia, sembra strano ma se apprezzi questo è la prova del nove”. Il LifeWear è in un boccone di pesce che vuole cambiare la conversazione. Il LifeWear è in un lunedì mattina in cui vuoi indossare quello che indossavi sabato mattina. Il LifeWear è in un pullover di cashmere che puoi comprarti a 98 euro. E passarlo a tua figlia senza che il cartellino che indica un brand - apparentemente - low cost possa renderlo un capo low cost.