Stavolta converrà iniziare dalla fine. Al défilé di Gucci, che ha deciso con Armani di concludere la fashion week italiana, mentre Prada l’aveva inaugurata (che le maison di casa nostra stiano cominciando a venirsi incontro per far permanere i giornalisti stranieri più di 48 ore? Bravi, continuate così), non siamo stati in pochi a sperare che le prime uscite fossero il segno di un nuovo corso di Alessandro Michele. Nell’hub di via Mecenate, arredato in modo asettico e impersonale con file di plastica bianca, su nastro trasportatore identico a quello delle valigie per gli aeroporti, venivano fatti passare, immobili, modelli e modelle vestiti di bianco, con giacche e pantaloni che solo a una seconda occhiata si rivelavano essere camicie di forza manicomiali, divise carcerarie da detenuti futuribili, uniformi da condannati a simboleggiare la società in cui viviamo.

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Una società disciplinare, regolata da norme e regole che ci impongono di vivere sotto l’occhio sempre aperto di uno o più Grandi Fratelli, secondo quello che ha profeticamente scritto nel ’75 il filosofo Michel Foucault in Sorvegliare e punire: «Da dove viene questa strana pratica, e la singolare pretesa di rinchiudere per correggere, avanzata dai codici moderni? Forse una vecchia eredità delle segrete medievali? Una nuova tecnologia, piuttosto: la messa a punto (…) di tutto un insieme di procedure per incasellare, controllare, misurare, addestrare gli individui, per renderti docili e utili nello stesso tempo. Sorveglianza, esercizio, manovre, annotazioni, file e posti, classificazioni, esami, registrazioni». Il colpo d’occhio era straordinario, disperato e distopico, ma tragicamente reale. Poi, invece, si sono spente le luci e al posto dei detenuti psichiatrici, è iniziata la ridda delle proposte per la primavera-estate 2020.

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Ma ormai il sasso era lanciato: a sottolineare che quello di raccogliere ispirazioni da ogni epoca e da ogni geografia è un metodo e non solo una cronica mancanza di idee per cui si ripesca a caso nel passato, Michele ha messo a punto una collezione che naturalmente pullula di rimandi storici ma con una maggiore pulizia di decori e forme e un’insistenza, evidentemente non casuale, alla dimensione del sesso come forma di resistenza culturale lasciata all’individuo. Lo slogan “Gucci Orgasmique” è disseminato ovunque, dalle nuove borse agli slogan sulle giacche e sulle t-shirt e, pur nel consueto sabba di colori, loghi e modelli, emerge un invito a un’eleganza carnale e non mediata da alcuna tecnologia: disinstallate Tinder, Grindr e tutte le dating app e apritevi al mondo per toccarvi, conoscervi, fare esperienza dell’altro seguendo i propri istinti e la propria individualità. Perché è sicuramente vero che in questo momento urge un’ecologia ambientale, ma è altrettanto improcrastinabile un ritorno a un’umanità più concreta, più 3D, più tangibile. Non è certo un caso se, alla fine dello show, la musica che galleggiava nell’aria era quella di Justify My Love di Madonna, del ’90: un inno alla felicissima confusione di epidermidi, sessi, corpi, gratificazioni di curiosità fisiche da provare e scandagliare senza sensi di colpa.

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Tutto questo, naturalmente non ha a che fare con l’esposizione della propria anatomia al colto e all’inclito, ma a un’attitudine emotiva che abbiamo ritrovato anche nell’elegantissima e sofisticata collezione di Simon Holloway per Agnona, tutta una sovrapposizione di giacche e camicie illanguidite nella più bella palette di colori vista a Milano. O nella “gipsy queen” di Etro, brand in grandissimo rilancio che della sua storia sta facendo cronaca del presente, nella rivisitazione di una vita “da giungla selvaggia” per Dolce & Gabbana e addirittura nel raffinato e rarefatto défilé di Paul Andrew per Salvatore Ferragamo, che aveva come tema quello di “un’estate italiana” rivista attraverso un uso sapiente del minimalismo di tagli e dettagli e dalla rivisitazione della scarpa simbolo del marchio, la famosa Vara, con il fiocco di gros-grain, ora un po’ più aggressiva e puntuta.

preview for Agnona Primavera Estate 2020

Perfino un Maestro dell’understatement un tempo ritenuto responsabile di una moda fin troppo castigata ai limiti del punitivo come Giorgio Armani, contrappone a una teoria di tailleur da giorno grigi, smilzi, affusolati, l’effervescente coquetterie di cappe iridescenti per la sera che sono tutte volant, o lo snobismo di grandi boa di struzzo, dove in realtà ogni piuma è ritagliata nell’organza. L’invito a una moda che sarebbe errato chiamare più femminile o più seducente, ma che è semplicemente più spensierata – perché in temi come questi sarà meglio fare l’amore e consumare così le nostre calorie invece che le batterie dello smartphone – è una traccia da seguire anche nella collezione di Marco De Vincenzo che vince la Palma della location più suggestiva quella della Darsena. Ogni modella indossa un abito monocolore che insieme agli altri forma un arcobaleno di tute le sfumature: non è difficile riandare con il pensiero alla Rainbow Flag , emblema inclusivo dei movimenti per i diritti umani in relazione all’orientamento sessuale.

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Anche Missoni, cui invece spetta la Palma per la sfilata più coinvolgente, grazie al regalo a tutti gli ospiti di una lampada a energia solare progettata dall’artista ecologista Olafur Eliasson, racconta che per questa stagione ha immaginato una coppia – lui e lei – che godono nello scambiarsi i vestiti, a sovrapporre il gilet di lei sui pantaloni di lui, il blazer di lui sul pullover di lui e fa il nome di un uomo e una donna che si sono amati fedelmente trasgressivi fino alla fine: Jane Birkin e Serge Gainsbourg. Alla fine di questa tornata di sfilate, partita con il freno a mano e poi pian piano in discesa, la fotografia perfetta è l’uscita finale di Jennifer Lopez per Donatella Versace: come dire, revival sì, ma di cose e cosce belle, robuste e sensuali. Quell’abito verde che era stato indossato prima da Amber Valletta in passerella, poi dalla stessa Lopez nel 2000, ora è il vessillo di una sensualità ritrovata che deve essere esercitata se non vogliamo finire tutti sorvegliati e puniti. Donatella ha ricordato con fierezza che, all’epoca, l’abito ebbe un tale, fragoroso successo da spingere Google a creare la sezione “Google immagini”, tanta era la mole di persone che, ovunque nel mondo, cercavano notizie e volevano ammirarlo.

Versace - Runway - Milan Fashion Week Spring/Summer 2020pinterest
Vittorio Zunino Celotto//Getty Images

A proposito di Google: buffo scoprire che proprio nell’ultimo giorno di sfilate si è diffusa la notizia che il più grande motore di ricerca del mondo avrebbe superato/raggiunto la "supremazia quantistica”: un computer creato dalla società avrebbe risolto per la prima volta un problema di calcolo che il più potente computer esistente oggi al mondo impiegherebbe 10mila anni per risolvere.

Mamma mia! Il punto è che viviamo in un periodo in cui i Millennial fanno molto meno sesso delle generazioni precedenti. In generale, il comportamento della collettività mondiale sta conoscendo, in nome di un’errata interpretazione del politically correct, aspetti moralisti e bacchettoni impensabili venti o trent’anni fa.

Perciò ci piace interpretare queste sfilate come benefici segni di escapismo sessuale, come un campanello d’allarme che, se i vestiti è importante indossarli, forse oggi è ancora più importante toglierseli. O farseli togliere (fatto salvo il consenso reciproco, ovviamente, mettendo in conto un moderno concetto di virilità, di femminilità e di tutto – ma proprio tutto – quello che c’è in mezzo). Non è molto buffo, riattivare l’attrazione fisica parlando di abiti? No. Rimane solo un dubbio, contenuto nelle note della sfilata Gucci: non è che anche la moda rischia di diventare un raffinato dispositivo di governo neoliberale che finisce con l’imporre una nuova normatività, trasformando la libertà in merce e l’emancipazione in una promessa non mantenuta? Spogliamoci prima possibile, conosciamoci a vicenda prima che arrivi l’inverno della tecnologia, sperimentiamoci l’un l’altro prima che l’occhio del Grande Fratello possa spiarci nell’ultima forma di indipendenza che abbiamo: i nostri corpi, connessi alle nostre menti e alle nostre emozioni. Spegnete quel maledetto cellulare.