Da quando sono state rimandate le Olimpiadi, la Biennale d’architettura di Venezia e forse anche la Mostra del Cinema, il Festival di Cannes e, buone ultime, anche le sfilate maschili e d’alta moda di luglio (nella speranza che si possano tenere riunite con quelle femminili a settembre prossimo), abbiamo capito che anche nella moda (quasi) tutto non sarà più come prima.

E questo vale anche per chi sta alla moda come la ceretta sta ai peli: ci saranno nuove consuetudini da imparare. Anche perché, in questo strano contrarsi e dilatarsi del tempo creato dall’isolamento, certi modi di apparire, non vi sembra?, appaiono già lontani, quasi anacronistici. Del resto, la rapidità con cui i grandi nomi - da Prada a Gucci, da Armani a Scervino, passando per Bulgari, Fendi, Valentino, Ferragamo, il gruppo Calzedonia - hanno non solo devoluto grandi cifre, ma riconvertito la loro produzione in tempi record (per non parlare del mondo della cosmetica con aziende che smettono di fare profumi e produrre gel igienizzanti), dimostra che il dinamismo del Made in Italy non conosce eguali. Quando è stato annunciato che 180 aziende della Camere della Moda si sono messe insieme e hanno creato due filiere per produrre due milioni al giorno di mascherine, camici, abbigliamento per infermieri e medici, il commissario straordinario Domenico Arcuri lo ha definito «un miracolo del Made In Italy». No, non è un miracolo. Anzi. Quel Made in Italy regolarmente e colpevolmente dimenticato da ogni intervento governativo, come fosse un fiore all’occhiello da appuntare al vestito della nazione e non una delle voci più importanti della nostro PIL, passata la tempesta dovrà essere ripensato in termini estetici, industriali, economici. E, speriamo, il primo cambiamento sarà proprio culturale: arriverà anche una nuova, meritatissima considerazione per un’industria che continua a venir stimata, dai politici di casa nostra ancora superficiale, schiumevole, frivola.

Inutile negarlo: ci aspettano tempi duri post-pandemici. Ci saranno enormi problemi soprattutto per le migliaia di dipendenti e operai di fabbriche medie e piccole ma preziosissime nel comporre la famosa filiera produttiva: perché l’Italia è e rimane l’unico paese al mondo (non ce la fa neanche la Francia) dove dal bozzetto si arriva al capo finito senza ricorrere a intermediari: dai tessuti alle zip, dai bottoni alle finiture, dai materiali più innovativi alla confezione serializzata. Eppure, pur avendo un carattere profondamente malinconico e annoverandomi tra gli apocalittici e non tra gli integrati, credo che questo virus stia contagiando i nostri corpi ma non le nostre menti. E non per irragionevole ottimismo, ma perché rovesciando la visione, saremo costretti ad aguzzare non solo l’ingegno, ma anche la creatività.

Perché? Vediamolo in quattro punti. E altrettante canzoni.

1) Il liberismo ha i giorni contati (Baustelle) È difficile / resistere al mercato, amore mio. / Di conseguenza andiamo in cerca di / rivoluzioni e vena artistica.

Il presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana Carlo Capasa ha parlato di una contrazione del fatturato dell’industria moda italiana tra -1,5% e -2,5% rispetto al primo semestre 2019 causata da un calo dell’export fra lo -0,5% e -1%. In Italia la moda vale 71,7 miliardi di euro, è un settore trainante in continua crescita: nel 2019 è andata meglio del previsto, con un fatturato di circa 90 miliardi e una crescita dell'export del 6%, di cui +5,6% solo in Cina. Ma le cose sono cambiate. Solo Gucci stima un -14% sul primo trimestre, una cifra enorme. Ma, nello stesso tempo, si sente nell’aria un desiderio di essenzialità, e questo non riguarda solo il mondo dei beni di lusso. Resteranno le collezioni pre-fall, cruise, capsule, sport e così via, mentre in realtà i veri soldi si fanno con gli accessori? O torneremo a uno scadenzario più umano e ragionevole, cioè quattro presentazioni all’anno, due maschili e due femminili? Ci si potrebbero aggiungere, per i pochissimi ricchissimi che non smetteranno di esistere, due collezioni di alta moda. Prché - paradosso temporale! - forse la sartoria costituirà una possibile salvezza.

Tempi più umani permetteranno ai direttori creativi di tirare il fiato, di avere più tempo per elaborare ispirazioni perché noi usciamo dritti dritti da un’altra, gigantesca crisi: quella delle idee. Parliamoci chiaro: come diceva Yves Saint Laurent, «la moda non è arte, ma ha bisogno di un artista per andare avanti» e molti, troppi creativi sono stati spremuti fino, letteralmente, alla pazzia per rispettare date isteriche, frenetiche. Mentre invece, chi avrà illuminazioni affascinanti per una generazione di consumatori geneticamente mutata dopo lo spavento, potrà più agevolmente muoversi grazie a boutique online e a nuovi strumenti di comunicazione. Del resto, Francesco Tombolini, presidente della Camera dei buyer, ha dichiarato al Corriere della Sera: «Se per una stagione si ferma il campionato italiano di calcio e l’NBA ha appena proposto la chiusura dei campi di allenamento alle 30 squadre, perché la moda non accetta per il suo bene di saltare una stagione?».


2) Fedeli alla linea (CCCP) Sensazionale afferrare l'occasione propizia / Indicare con una crocetta / La qualità, la quantità desiderata / La qualità, la quantità desiderata.

Non siamo così calvinisticamente e fiammingamente convinti come Li Edelkoort, la più autorevole veggente in termini di abitudini, usi e costumi che ha definito la pandemia «una meravigliosa grazia per il pianeta». Però è vero, lo vediamo tutti: nelle città l’aria è più pulita, pesci e cigni sono tornati nei canali di Venezia, perfino nella mefitica atmosfera delle megalopoli s’intravvede il sole, prima oscurato dallo smog. Questo porterà chiunque – anche chi trova Greta Thunberg antipatica - a riesaminare la quantità di abiti e accessori che già possiede. E, oltre a incentivare scambi, baratti e affitti di abiti - perché siamo umani e poter cambiare ci piace - i grandi marchi dovranno seriamente prendere in considerazione il tema della sostenibilità come base per nuove pratiche estetiche. Produrre riducendo l’impatto ambientale sarà una richiesta imprescindibile da parte degli acquirenti. E poi, ammettiamolo: in un mondo in cui, per non sappiamo quanto, sarà difficile viaggiare, si dovrà tornare, per mantenere alta la qualità, a laboratori artigiani, a piccole imprese locali, a strutture più agili che lavorano sul territorio e garantiscono, per competenza, un primato della durevolezza sulla capacità. Lo shopping come passatempo, rivolto genericamente all’acquisto senza un preciso bisogno concreto, non sarà più il riflesso comportamentale di un’attitudine nevrotica. Ci sarà una decelerazione degli acquisti: ma era malato quell’affastellarsi di proposte che svuotano anche le creazioni più autoriali di comunicazione, continuamente sostituite da altre e poi altre, e poi altre. Il trionfo del superfluo insensato è arrivato a mostrare i suoi limiti, perché alla ricerca dell’originalità si è opposta una strategia della simulazione che riproduce e imita la moda autentica, che si fonda su un pensiero progettuale.

3) Technologic (Daft Punk) Scan it, send it, rename it / Touch it, bring it, pay it, watch it / Turn it, leave it, stop, format it / Technologic, technologic, technologic, technologic.

Quello del “fare a mano” le cose non deve far pensare a un ritorno a un'autarchia vestimentaria in cui si tornerà dalla sartina o dalla zia che fatto la scuola di taglio e cucito. Come ha sottolineato anche Baricco in un articolo per La Repubblica ormai famoso, se in questo periodo di reclusione in cui evitiamo la follia solo grazie a videochiamate, riunioni su Skype e aperichat su Houseparty, lavoriamo in conference call, smart working, ci distraiamo su canali d’intrattenimento nati dal web come Netflix, Apple Tv e Disney+, se ci è possibile farci arrivare la spesa a casa, è stato solo grazie al computer e alle tecnologie più avanzate in ogni settore: tant'è vero che riponiamo in quelle legate alla sanità la speranza di trovare un vaccino o una terapia. Tecnologie che finora qualcuno, snobisticamente, ha pensato di evitare. Ma se la realtà ci pone di fronte a emergenze simili? È già aperto un dibattito sulla necessità di sfilate ed eventi fisici nel mondo della moda. Si ragiona su nuovi format di presentazione, su nuovi linguaggi da introdurre nei social, dove gli influencer dovranno rivedere i loro meccanismi comunicativi. Ha quasi già fatto il suo tempo, chi si fotografa i piedi con pantofole griffatissime e intavola con i follower – in costante diminuzione, come i loro guadagni – noiose conversazioni su quanto sia più pratica la tuta in triacetato ma costosissima o quella in cashmere lieve ma altrettanto costosissimo (già: non tutti sono pronti a una metamorfosi in angeli del bene come Chiara Ferragni e Fedez, polemiche col Codacons a parte). Se oggi il rischio ci appare come la “domestificazione” della moda - dalle ciabatte pelose di Gucci alle vestaglie di seta - guardando al domani è solo grazie alla tecnologia che si potrà salvaguardare il pianeta e, contemporaneamente, valorizzare le risorse umane. Cioè: ricerche di nuove fibre, tessuti ecologici, semplificazione produttiva: vedi la strada che ha intrapreso con maestria Zegna e il suo direttore creativo Alessandro Sartori. Certo, appare bizzarra l’idea dei digital clothing proposta da Carlings, catena scandinava di negozi “fisici” con abiti reali, che ha lanciato l’idea di abiti virtuali, ispirati alle skin dei giocatori stile Fortnite (si parte dai 9 euro per una fascia da capelli fino a 30 per un piumino), che non verranno mai prodotti ma essere indossati solo online o in una foto su Instagram. Però è un’idea. E pure interessante.

4) Eternantena (Mahmood) Fuori sembra caldo / dentro forse mollo / guardo il sole e il mondo pregando ad Apollo sai tu che ore sono? / Quattro e non ho sonno / È facile per me perdere briciole del mio controllo / dimmi gridi pure te?

Non ce la facciamo più. Ci sentiamo smarriti, prigionieri, angosciati, sequestrati da un virus di cui nulla sappiamo e che, per la prima volta dopo tanti anni, ci mette faccia a faccia con l’idea della morte. Nessuno di noi ci era abituato. Ma tutto passa. Da buon apocalittico quale sono, mi riscuoto dalla mia malinconia pensando che tutto passa. Tutto. Dopo la peste nera, è arrivato il Rinascimento. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il boom economico degli anni Sessanta. Prima o poi, anche il coronavirus verrà battuto, o, come nel caso dell’AIDS, si troverà un modo per scendere a patti con lui. Passo dopo passo, dall’oscurità si dovrà uscire, non siamo in una serie distopica. E allora, vorremo solo bellezza. Bellezza come cura e balsamo per animi e corpi feriti dalle sofferenze di un male sconosciuto. Una volta riassaporata la libertà, cercheremo lenitivi di ogni genere pur di dimenticare. A cominciare dal nostro aspetto. Lo dicono scienziati e psicoanalisti: nel processo che lega la creatività, base necessaria per l’innovazione, alla capacità di connettere elementi diversi, i fattori che maggiormente colpiscono la mente umana - come quelli estetici -, sono particolarmente favoriti. La bellezza può essere insomma per l’Italia l’occasione per cogliere le opportunità e moltiplicarle, per ricollocare in un nuovo sistema di relazioni reciproche le parole, i concetti, le azioni finalizzate allo sviluppo. Quando saremo usciti dal buio avremo a disposizione un’altra forma di declinazione della bellezza: quella di scegliere con cura. Fare bene le cose, fare belle le cose è la via per tornare a regalare al mondo cultura, innovazione ed eleganza.