Vallate scavate dai fiumi, scogliere che, se potessero, si guadagnerebbero l’Oscar alla miglior scenografia per un film drammatico, modesti altopiani, valichi dai nomi che assomigliano a quelli di vecchi Lord, e poi verde. Verde, verde, verde e sempre verde. C’è un’infinita palette di verde, nemmeno Pantone la possiede nei suoi lunghi tomi sulla storia del colore dove osa etichettare le sfumature una dopo l’altra. A delle coordinate che metterebbero alla prova perfino una di quelle bussole antiche, impossibili da disorientare, si trova William Clark & Sons, il primo mulino di lino nato in Irlanda, l’ultimo mulino di lino rimasto in Irlanda. Il luogo in cui si nascondono le collezioni di Alexander McQueen prima di vedere la luce di pigri soli londinesi, che s’insinuano attraverso le finestre dell’atelier di maison a Londra.

Era il 1736 quando l’uomo da cui prende il nome il mulino, William Clark, decide di mettere una pietra sopra a tutto tranne che ai suoi sogni, così costruisce il posto dove macchinari aiutati dalle mani e, soprattutto, dalla mente dell’uomo lavorino giorno e notte affinché delle fibre vegetali si trasformino nel lino come lo conosciamo noi. Cioè quel tessuto un po’ ruvido, un po’ impalpabile, un po’ trasparente, un po’ spesso, in cui ci piace affondare il corpo quando non guardiamo al meteo in cagnesco.

preview for BEETLING WHITE DRESS

In Irlanda e, in generale, in tutto il mondo, il mulino di William Clark & Sons è l’unico rimasto a dedicarsi con delicatezza e dedizione alla lavorazione del lino coleottero, beetled linen, un tipo di lino pressato, dalla luminosità naturale eccezionale. È per questo motivo, non proprio da poco, che parte della collezione di Alexander McQueen Primavera Estate 2020 è stata realizzata qui. Cioè , lì dove vorremmo essere adesso forse, lì dove i video che vi pubblichiamo in esclusiva ci (tele)trasportano per qualche secondo, mentre grossi blocchi di legno si abbattono su delicatissimi metri di lino pregiato. E a noi un po’ fa male il cuore, quasi dispiace, nel vedere quel bendiddio color alabastro essere schiaffeggiato da dei macchinari grandi e grossi. Poi, però, scorgiamo le facce di quei maestri del mestiere che se ne stanno lì a guardare tutto il procedimento, e li vediamo sereni, sorridenti, anzi soddisfatti del lavoro che stanno facendo, loro, insieme ai pilastri di legno, insieme alle indicazioni della casa-madre di Londra. E ci tranquillizziamo. Anche perché, calcolatrici o non calcolatrici alla mano, quel posto esiste da 284 anni, tutte le generazioni che lo hanno abitato, tramandando tecniche forse ormai inesistenti, avranno saputo il fatto loro.

preview for Alexander McQueen SS20

Prima di diventare abiti da sogno firmati da Sarah Burton, creative director di Alexander McQueen dal 2010, quei centimetri, metri, chilometri, chi lo sa, di lino sono immaginati, abbozzati, lavorati nello studio di Maison, e solo poi spediti al mulino, dove vengono trattati con amido di patate e martellati dai famosi blocchi di legno, che regalano l’iconico effetto pieghettato-appiattito. Poi rispediti a Londra per il confezionamento finale di, ad esempio, giacche trompe l’oeil, tailleur sartoriali, abiti con maniche a palloncino. Spesso gli abiti vengono letteralmente spennellati con la mistura di amido di patate, a volte immersi in un bagno amidoso, come vuole la tecnica tradizionale. L’obiettivo è conferire al lino quanta più luce e candore possibile. Dopodiché, vengono appesi per cinque giorni ad asciugare, a riposare. Prima di tornare a Londra tra le mani-nuvola di sarte inglesi, i tessuti vengono arrotolati in calicò, per poi essere svelati in tutta la loro croccantezza, riassemblati in capi finali in atelier, trasformati in attori principali dello show. Se si ascolta l’avanzare fiero della modella, in silenzio, si sente l’andare di quei fiumi, lo scrosciare di quelle scogliere, il frusciare di quelle distese di verde.

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Courtesy Photo / Alexander McQueen