Può un racconto, una storia, scavare nell'intimo, ed essere avvincente per chi lo legge, o lo guarda, senza che, del protagonista principale sia mai possibile vedere il volto? Sì, se quel documentario è Martin Margiela: In his own words (lo trovate su iTunes), resoconto per immagini e parecchio materiale d'archivio, della carriera del designer ormai oggetto di un culto laico, riverito e ambito anche per quell'aura di mistero sovrannaturale che l'ha sempre avvolto. Martin Margiela sta alla moda come il Dottor Manhattan sta all'umanità del mondo distopico di Watchmen: una figura semi-divina, che ha cambiato il corso della storia, e poi ha preferito fare un passo indietro, dando a quell'umanità da lui salvata la possibilità di scegliere il proprio destino. Se però l'uomo blu del fumetto – e poi del telefilm del 2019, incoronato all'unisono come la migliore serie dell'anno – si trasferisce su Marte, e in una futuribile cabina telefonica terrestre, ovviamente blu, l'umanità scorre in processione, attaccandosi alla cornetta per pregarlo di esaudire svariati desideri, ma soprattutto di ritornare in un mondo privo di certezze, senza di lui, Martin Margiela, dal 2008, anno nel quale vende il suo marchio alla OTB di Renzo Rosso, non ha fatto altro che ritirarsi a vita privata, senza smettere di esercitare la sua creatività, ma dedicandola alla scultura. Questo non vuol dire che sia mai scomparso dalla scena pubblica – anche perché le scene non le ha mai calcate, rifiutandosi di abbinare la sua immagine fisica e corporea a quella del marchio che ha fondato – o che il pubblico degli addetti ai lavori lo abbia mai condannato a una damnatio memoriae automatica in un universo nel quale esisti solo nella misura nella quale scegli di esporti. In maniera inversamente proporzionale, invece, Martin Margiela e il suo lavoro continuano a essere rilevanti anche e soprattutto ora che lui è lontano. O almeno questa è la tesi che il documentario girato da Reiner Holzemer sostiene, senza in realtà dover fare molta fatica a trovare gli argomenti a supporto.

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Il regista, già avvezzo alla narrazione della storia del costume, in quanto autore anche del documentario su Dries Van Noten ("Dries") non inquadra mai il volto di Martin Margiela – anche quello ormai oggetto di una mitologia che lo voleva di una bellezza sfacciata, un Dorian Gray senza scheletri nell'armadio o quadri che invecchiano al suo posto – ma si fa guidare dal suono della sua voce, suadente, posata, pacificata, e dai movimenti delle sue mani, che passano in rassegna i ricordi d'infanzia, i suoi primi disegni, le bambole alle quali aveva tagliato le punte delle scarpe dopo aver visto un documentario su Courrèges, e la Barbie alla quale aveva realizzato il suo primo, vero abito.

Storie di una infanzia abbastanza comune, dal sapore dolciastro che hanno le infanzie in provincia (Genk, in Belgio) con le nonne sarte che si prestano a insegnare alla prole curiosa e un po' annoiata, i primi rudimenti di ago e filo: e però Martin non è comune. Perché su quel corpo in plastica non posa un prendisole bicolor realizzato alla bell'e meglio all'uncinetto, come è successo a qualunque settenne sia mai stato velocemente posseduto dal fuoco sacro della maglia, e altrettanto velocemente se ne sia stancato, ma un'esatta replica di un blazer grigio in flanella di Saint Laurent. "Sembra già una modella di Margiela", commenta, guardando quel suo ricordo di bambino, e si sente la sua voce sorridere.

E così, raccontando la sua carriera, dagli inizi al fianco di Jean-Paul Gaultier alla prima sfilata e a tutte le altre che si sono succedute – organizzate sempre in luoghi distanti, distantissimi, dai glitter e dal glamour delle passerelle tutte un po' uguali, dal giardino del 20esimo arrondissement, la periferia delle periferie, al treno merci o in un vecchio teatro – si svelano i misteri della sua concezione estetica. Le parrucche da donna, trasformate in pellicce, sono così un ricordo d'infanzia, di quando sua madre le vendeva nel negozio di suo padre, barbiere. Il genitore, imbarazzato da quegli oggetti così dichiaratamente femminili in un negozio ad alto tasso di testosterone, aveva chiesto alla coniuge di esporle (e venderle) solo dopo una certa ora del pomeriggio, come se fossero oggetti del peccato, vizi nei quali indulgere solo con il calare delle tenebre, "Mi sembrava così stravagante", ricorda lui. I veli con i quali copriva i volti, sono invece una strategia couture, per distogliere l'attenzione dall'individualità, concentrandola sul vestito, e sul movimento e all'armonia che regala al corpo, un assunto che, con il suo pervicace e assoluto anonimato, ha applicato anche a se stesso.

"Ho sempre voluto che il mio nome fosse associato a un marchio, non capivo perché vi si dovesse abbinare la mia faccia.

Oltre alle sue, di parole ci sono però quelle di altri testimoni di pregio, presenti nel momento nel quale la Super Nova che ha rappresentato nella costellazione di brand che stavano andando, nel 1989, da tutt'altra parte, si è palesata nel cielo. Cathy Horyn ammette di essersi sentita a disagio, lei già giornalista consumata, e quindi automaticamente vezzeggiata e coccolata da uffici stampa in cerca di approvazione, durante una delle prime sfilate in lavanderia, costretta a sedersi su una lavatrice, Carine Roitfeld riassume il pensiero comune, quando ammette che "Martin è arrivato, e tutto quello venuto prima di lui è sembrato subito passato di moda". Tra gli sguardi stupefatti alla sua prima sfilata, si intravede quello di Jean-Paul Gaultier "stavo facendo un'intervista con un giornalista di Vogue Uk, gli ho detto che dovevo andare, avevo la sfilata di un mio ex collaboratore e non potevo perdermela, l'ho costretto a venire con me. Mi aspettavo che sarebbe stata bella, ma non così bella!"

Così il documentario alterna il privato e il pubblico, l'intimo immaginario di un uomo che ha vestito una donna nuova, non asservita alle proiezioni di nessuno, e l'immagine pubblica, inesistente e per questo multiforme, restituita dalle impressioni e dalle idee che gli altri hanno avuto su Margiela, senza che lui si sia mai dato troppa pena di smentire questa o quella diceria, una divinità spesso evocata e però ancora tremendamente presente nelle collezioni di tutti i suoi epigoni contemporanei. La voce sembra velarsi di malinconia solo quando ne narra l'epilogo, quello di un brand diventato più grande delle sue aspettative, bisognoso di una struttura manageriale di cui lui non era capace, e quindi la vendita all'OTB. Così finisce la parabola di Martin Margiela, con quella sua uscita di scena definitiva dal marchio che aveva fondato, mentre sul video passano immagini di stylist ed esperti di tendenze, modelle e socialite, studiosi e profani del Verbo secondo il fondatore di Maison Margiela, accalcati in fila al Palais Galliera, sede di una sua già leggendaria mostra nel 2018. Più che una delle tante mostre di costume, un rito pagano, un'invocazione laica, la versione couture di quella cabina telefonica con linea diretta su Marte, alla quale un'umanità variegata si rivolge, sussurrando la nostalgia per un creativo che si è volutamente sottratto allo sguardo del pubblico, e che però, non è mai stato così presente come oggi.