Arriva puntuale alla riunione online con pochi, sceltissimi giornalisti: il nuovo prestigio passa anche da una mail e da un invito personale, in forma di “attach file”. I capelli lunghissimi da lockdown, la casacca a fiori, la collana etnica, gli occhiali da aviatore, e sullo sfondo il suo ufficio a Palazzo Alberini, uno degli edifici rinascimentali più belli di Roma: Alessandro Michele somiglia a una figura sacra e ieratica da Jesus Christ Superstar ma, rispetto alle poetiche dichiarazioni sull’account Instagram di Gucci, meditabondi pensieri sul futuro della moda (riprese già da ieri sui siti dei quotidiani e dei magazine online), si rivela concreto, preciso, chiaro. Ed è una bella sorpresa: se le cadenze delle collezioni ormai per lui sono troppo veloci e il Covid-19 non ha fatto altro che accelerare certe esigenze di rallentare la sua creatività, «mi sento responsabile di un impero che dà lavoro a 17mila persone e vorrei che una grande azienda come la mia fosse anche in grado di proteggere i marchi più piccoli, come se li avessi sotto la mia ala». Spiega come in questo tempo di “post-monachesimo” imposto dalla pandemia («ho passato molti giorni a studiare il Medioevo e le invasioni barbariche. Non è stato un periodo di sola oscurità: si sono costruite chiese e tramandato i saperi grazie agli amanuensi, un po’ come mi sono sentito io»), ha capito che i periodi più neri possano portare a luci nuove in fondo a tunnel vecchi. «Ma non sono così sprovveduto da voler presentare le collezioni quando a me andrebbe, seguendo il metodo di Azzedine Alaïa, anche se per me sarebbe bellissimo: so benissimo che esiste un sistema, che in qualche modo, se va ripensato, va anche ristabilito con date e appuntamenti. Quello di cui sento l’esigenza è avere più tempo per sviluppare la mia creatività, ma contemporaneamente, di farla aderire maggiormente alle esigenze dell’umanità, sapendo che forse anche trovare negli spazi vendita abiti e accessori in sintonia con le stagioni, può restituirci a una nuova dimensione del vestire». Annuncia perciò che, a luglio, nel mese in cui avrebbe dovuto sfilare la collezione cruise («che insieme alla parola pre-fall per me non ha alcun significato, è svilita, impoverita, denutrita») ci sarà un evento – sulla forma si sente libero di poter scegliere tra varie piattaforme espressive – che si chiamerà Epilogo: una collezione il cui casting verrà fatto tra i suoi collaboratori, perché nel termine epilogo c’è il senso di una fine, ma si possono piantare anche i semi di una nuova storia». Prosegue dichiarando che su cinque appuntamenti all’anno lui ne proporrà solo due «perché nella mia testa io penso alla primavera e all’autunno come a due spontanee, istintive fasi di metamorfosi del pianeta, del tempo, dell’atmosfera». E non comprenderanno la linea maschile o femminile, «ma in questi due appuntamenti ci sarà tutto l’umano possibile, perché oggi la moda non può non accogliere alcuna categoria di genere predefinita. Infatti, sul nostro sito stiamo già studiando un nuovo spazio che si chiamerà MX (pronuncia Mix, ndr) dove ognuno potrà acquistare qualcosa che gli piacerà, a prescindere dalla sessualità». Con voce calma e ferma, Michele sta «dando concime al percorso che ho cominciato, pensando alla mia storia, ma anche a quella dell’intera umanità: si metterà ordine tra quello che sfilerà e quello che andrà nei negozi, nel segno di una comunità che si ritrova nei miei valori». È molto strano, per lui che è così attento alle parole, definirsi attraverso un linguaggio bellico: «Ho letto sui quotidiani che questa mia decisione è stata interpretata come una diserzione dalle fashion week: è esattamente il contrario. Se volessi scherzare direi che sono le fashion week a voler disertare da me, perché io e Marco Bizzarri, il nostro amministratore delegato, probabilmente non intendiamo più seguire un ritmo che era diventato troppo frenetico e impediva, alla fine, ai consumatori finali di apprezzare la qualità di un abito, di poterlo toccare, di riuscire ad apprezzarlo nei suoi aspetti artigianali, che dobbiamo preservare». Continua dicendo che «dobbiamo dare tante carezze al Made in Italy, coccolarlo, perché ho grande rispetto per il nostro patrimonio manuale, che poi è apprezzato così tanto in tutto il mondo da diventare patrimonio universale».

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La sua intenzione è dare un nome agli appuntamenti con il brand mutuando il linguaggio dalla musica: addio Cruise, Pre-fall, Capsule sostituiti dai più lirici nomi delle composizioni della musica classica: sinfonie, rapsodie, madrigali, notturni, ouverture, concerti e minuetti. Come e in che modo possano venire somministrati alla sua «audience», ancora non lo sa: «Mi considero un passatista, amante delle cose antiche, eppure recentemente mi sono appassionato al linguaggio filmico, a quello dei social, a quello dell’arte contemporanea». Sarà in grado, Gucci – con la sua potenza economica e con il suo enorme fascino d’attrazione che in questo momento lo rendono uno dei marchi più desiderabili al mondo, di farsi seguire da altri colleghi che pure la pensano come lui, come Giorgio Armani (autore di una lettera aperta dove si parla di un ritorno alle presentazioni stagionali), Dries Van Noten, Anthony Vaccarello per Yves Saint Laurent? «Sapete meglio di me quanto tra colleghi ci si rispetti, ma non si comunichi. Forse, uno dei lati positivi di questo cataclisma che ha coinvolto indistintamente tutti – e tutti ha fatto pensare a quanto il sistema della moda stesse danneggiando il pianeta – sarà anche il superamento di questo ostacolo». E conclude inneggiando a un ottimismo concreto, possibile, fattivo. Come un cavaliere che vuole salvare dal drago cattivo la sua amata, ma ha già elaborato un piano preciso – razionale ed emotivo insieme - per poterla sottrarre a ogni pericolo. Perché la moda, in fondo è questo: unire senso e sensibilità, ragione e sentimento, necessità e sogno.

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