Un raro caso nel quale i familismi e i cognomi poco hanno a che vedere con il successo, quello di Simone Rocha: a farglielo presente, per la prima volta, fu la leggendaria professoressa Louise Wilson che incontrò quando frequentava la Central Saint Martins. Nota per la sua capacità di intravedere il talento, e spronarlo – tutti bravi oggi a riconoscere in Alexander McQueen un genio, ma i prodromi di quella creatività senza freni li vide lei per prima –Wilson era un'inglese dai metodi spicciativi e con poca pazienza verso le formalità anglosassoni. Quando nella rinomata scuola arrivò questa ragazza dal viso rotondo, una cascata di capelli corvini e l'aria decisa – ma forse era solo insicurezza mascherata da sfacciataggine – il suo cognome la precedeva. John Rocha, designer con origini di Hong Kong, maritato in seconde nozze con l'irlandese Odette, madre di Simone, era già parte – con una certa ritrosia e molta riservatezza, anche se poi l'esprit de vivre dublinese prese il sopravvento e si parlò di party molto divertenti frequentati dalla intellighenzia anglosassone – di una fashion society assai intellettuale, di quelle con onorificenze conferite dalla Regina, e iterazioni anche nell'arredamento d'interni (suoi gli interior del Morrison Hotel di Dublino come quelli dei negozi Debenhams) ma anche di facce stampate sui francobolli irlandesi. Così, Wilson mese in chiaro le cose sin da subito. "So chi è tuo padre, ma non potrebbe fregarmene di meno" pare esordì, giusto per mettere Simone a proprio agio. Superate le difficoltà e guadagnata la stima della difficile insegnante, pare che il rapporto decollò, tanto che nei front row delle sfilate della studentessa divenuta designer alquanto acclamata – non solo per il cognome del padre – ci fu sempre posto per Wilson, fino alla sua scomparsa per un cancro al seno, nel 2014. E quindi certo, i danari di famiglia avranno permesso a Simone un'educazione comme il faut, ma per mantenere un business florido, senza nessuna tentazione di vendere a qualche grande gruppo, e solleticando pure l'interesse di Remo Ruffini, il patron di Moncler poco incline alla sensiblerie ma dotato di geniale visione anche economica – che l'ha arruolata nel progetto Genius – ci sarà, in fondo, del sostanziale talento. «Sono una donna che disegna una collezione al femminile, ovvio che ci sia un coinvolgimento personale» spiegava nel 2017 al Guardian «parlo costantemente di donne, sfidando la concezione classica della femminilità, e le mie esperienze di vita hanno il loro peso specifico. Quando ero incinta, sono stata malissimo, ho avuto una gravidanza difficile, dare la vita è un'esperienza che ti catapulta in una dimensione al di fuori del tuo corpo. Creare è un mestiere che mi riesce solo quando si abbassano le difese, si è più deboli, anche se, ogni volta che sono sotto stress, mi ricordo di quei nove mesi difficilissimi e penso che almeno non sono incinta».

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Simone Rocha, fall/winter 2019



Classe 1986, compagno nel ramo dell'arte, Eloin McLoughlin, madre di Valentine, la famiglia però rimane centrale nella sua visione. Dopo essere cresciuta con il fratello Max in un villaggio poco fuori Dublino, nell'atmosfera fatata costruita a suon di brughiere e romanzi di formazione, lavora a bottega, come si usava anticamente, dal padre, dai 13 ai 18 anni, e apprende da lui la sensibilità ai tessuti – mentre alla madre, ammette, si deve la formazione culturale e artistica. Ancora oggi non smette di ricordare con una certa tenerezza come il gruppo familiare si emozionasse per ogni suo minimo risultato: una premura dovuta alla sua condizione, la dislessia, che ha visto nella moda lo sfogo creativo e pratico di una visione che non avrebbe saputo definire, semplicemente scrivendola su un foglio. E la sua visione è quella di una femminilità decisa, che non sfugge alle contraddizioni o alle dicotomie, scolpita attraverso lo studio e l'adorazione di figure forti, come quella di Louise Bourgeois, artista francese a cui ha dedicato più di una collezione e la sua tesi di laurea, le sorelle Bronte «donne forti che, per via dei tempi, si dovevano nascondere dietro uno pseudonimo» (tra i suoi libri preferiti figura, oltre a quelli del poeta irlandese Seamus Heaney e a Burning in water, drowning in flame di Charles Bukowski, il Cime tempestose firmato da Emily) e Anna Bolena. Donne del passato, di cui aggiorna il guardaroba – che parte spesso da stereotipi vittoriani ed eduardiani con certe bluse dalle ampie maniche a sbuffo e colli alti tempestati di bottoncini – utilizzando tessuti e colori insoliti e tecnici. Gli impermeabili si costruiscono in un impalpabile mesh rosa confetto, la pelle degli stivali è laminata, gli abiti a motivi floreali sono in crochet plastificato, le gonne a balze vaporose si stampano di motivi blu Cina: il risultato, nonostante la palette e i volumi, non è mai zuccheroso, ma piuttosto sottilmente disturbante, e affonda le radici nella complessità dell'essere donna, oggi come ieri.

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Benedetta Barzini sfila per la Spring/Summer 2020 di Simone Rocha

Una visione che ha sempre sostenuto sin dai suoi inizi, con la sfilata con la quale si laureò – e che convinse quelli di Topshop a inserirla nel loro programma di sponsorizzazione, facendole firmare una collezione per il brand – e poi con la prima vera e propria, quella presentata alla London Fashion week nel 2010, che fece capitolare pure le eminenze grigie di Adrian Joffe e Rei Kawakubo, fondatori di Dover Street Market, negozio la cui selezione di brand è fonte di culto per gli appassionati. Nel 2014 Harper's Bazaar la definisce designer dell'anno, nel 2018 raccoglie premi e allori ai British fashion awards, dove suo padre era stato incoronato designer dell'anno, nel 1993. Nel frattempo lavora e progetta nel suo studio a De Beauvoir Town, nel quartiere di Hackney, nella zona est di Londra, con vista sul canale di Regent, lontano dalla gentrificazione di Hoxton, tra opere di Louise Bourgeois e foto di Nobuyoshi Araki – artista che ha omaggiato nella spring/summer 2016, con abiti rosa confetto in organza a stampa floreale sul quale si incrociano due fasce in macramé nero, a ricordare gli intrecci erotici del bondage, ossessione stilistica del fotografo.

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La designer Simone Rocha

«La mia intera filosofia si avvolge intorno all'idea di femminilità e come si integra nella vita quotidiana delle donne, come le fa sentire. Con ogni collezione si racconta una storia, e speri di raccontare una alla quale le donne si sentono vicine, anche se è una storia che racconta degli stereotipi di sensualità attraverso i quali gli uomini vedono le donne, sono sempre loro, le donne, ad essere al centro del discorso» spiega al Guardian quando presenta la sua collezione fall/winter 2017, ispirata alle foto di Jackie Nickerson, che ritraevano donne africane al lavoro nei campi. A quell'iniziale immagine si abbina la condizione storica del momento, quella della presidenza Trump e del voto favorevole alla Brexit: il risultato è in un abbigliamento protettivo, cinte che appaiono come cartuccere, voluminosi cappotti in taffetà neri, stole in finta pelliccia, maxi capospalla in velluto con tasche imbottite che appaiono, però, morbide in maniera seducente. «In un momento nel quale il mondo è andato con le gambe all'aria, il guardaroba è quello di una donna pronta a lottare, ma non poteva essere tutto rigido e duro, alla vista e al tatto: serviva la morbidezza del velluto e delle imbottiture» spiega con voce pacata. Una visione che convince donne di ogni età, e la cui trasversalità si riflette nei suoi casting, diversi per generazione: sulla sua passerella sfilano la regina della indie-coolness Anni 90 Chloë Sevigny, ma anche Jamie Bochert, modella dal viso allungato e dal fascino magnetico, così come Marie Sophie Wilson con la sua crocchia di capelli orgogliosamente bianchi, e l'icona imperitura delle passerelle Anni 60, Benedetta Barzini.

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Un dettaglio della spring/summer 2016 di Simone Rocha

Una filosofia che distilla in due sole collezioni all'anno, senza farsi convincere dalle sirene delle pre-collezioni, della cruise, della resort. «Sono soddisfatta così» ammette. «Rei Kawakubo, Miuccia Prada: sono donne alla guida delle loro aziende. Sono loro le persone che ammiro. Sono una designer molto emotiva, metto tutta me stessa dentro una collezione, per questo non voglio realizzarne più di due all'anno. Inoltre, mi stupisco di quanto mi piaccia la gestione economica del brand: è stato difficile, lo ammetto, ma oggi guido il mio brand. Mia madre faceva lo stesso con il brand di mio padre, e lo faceva con una tale grazia ed eleganza che mi è stata d'ispirazione»

Guai a chiamarla femminista, però: «il termine non mi piace, è divisivo. Non mi piace tutto ciò che deve essere definito, incasellato, invece io sento di avere diversi ruoli: quello di madre, quello di donna che fa crescere sua figlia e il suo brand, e quello di maniaca del controllo. Non credo che in quell'ambito con l'età si migliori: a 60 anni sarò insopportabile». Per arrivarci, però, c'è ancora molto tempo.

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Simone Rocha spring/summer 2017