Dior vs Valentino. Chi ha vinto? Tutti e due
Chiuri e Piccioli erano un duo. Ora lei è da Dior e lui è rimasto dov'era. È stata vera guerra? Vediamo.
«Se si considera quanti motivi ogni uomo ha di essere inquieto e di nascondersi timorosamente, e come i tre quarti della sua energia e della sua buona volontà possono essere paralizzati e resi sterili da quei motivi, bisogna allora essere molto grati alla moda, in quanto libera quei tre quarti e procura fiducia in sé» (Aforisma 209 da Umano, troppo umano di Friedrich Nietzsche).
Ci ho pensato. Ci ho ripensato. Ho trovato conforto nelle letture, visto che per motivi di lavoro l’esordio di Maria Grazia Chiuri come direttore (direttrice?!) creativo/a di Dior e quello in solitaria di Pierpaolo Piccioli da Valentino, li ho potuti vedere solo sul web. Che, una volta per tutte, non è la stessa cosa che esserci. E poi: «Dobbiamo esaltare l’italianità!», mi opprime una collega. «Dobbiamo esaltare le donne al potere!», mi intima un’altra. A me ha sempre fatto orrore il pensiero binario del bello/brutto, dell’uomo/donna, del patriottismo/esterofilia. È vero, di connazionali ce ne sono tanti al timone, da Alessandro dell’Acqua per Rochas a Fausto Puglisi per Ungaro, da Riccardo Tisci per Givenchy a Giambattista Valli per se stesso e per Moncler Gamme Rouge: tutti bravi, senza dubbio. Ma, per me, sono bravi in quanto designer, non perché legati a una specifica geografia. E vorrei dunque rifuggire anche dal commentare come un match - non c’è stato, perché entrambi erano in prima fila alla sfilata dell’ex-collega, non sappiamo se ascrivibili ancora alla voce "amici" - la sfilata di Dior e quella di Valentino.
Sono giunto a una conclusione: tutte e due sono state più intelligenti che belle. Tenendo conto delle infinite declinazioni dell’aggettivo “bello” che hanno a che fare con il proprio sentire. Maria Grazia ha sfoderato una vocazione a essere una comunicatrice nata, che ante-scisma non le avrei mai attribuito: prima della sfilata ha mandato su Instagram dei microvideo in cui chiedeva alle donne della maison Dior quale fosse il loro mito femminile di riferimento. Al défilé la modella Ruth Bell era nei fatti una versione più glamour della schermitrice Bebe Vio in prima fila.
Pierpaolo ha invece dimostrato di essere sensibile alle mutazioni della modernità con una sfilata più ottimista, come si fosse tolto un peso dal cuore: e a proposito di cuore, usato più come un emoji (la definizione non è mia, ma di Clara Tosi Pamphili), tutti e due lo hanno messo sul petto delle loro modelle: quello visto da Dior ne era la versione sacra. Quello di Valentino era spezzato, metafora di un amore infranto? Forse sì, più probabilmente no. Fa parte di un immaginario che - a questa punto si svelano gli altarini - nell’estetica di Piccioli ha sempre unito il passato al presente, partendo da un quadro o una foto e traendone forza propulsiva e creatrice.
La sua è stata una collezione ricca, ricchissima. Ma come negli orologi costosi che sono talvolta inutilmente arzigogolati, piena di complicazioni, era a tratti eccessiva : ha fatto reinterpretare a Zandra Rhodes - uno dei miti della moda inglese dei primi 70, lisergica e immaginativa - nientemeno che Il Giardino delle delizie di Bosch. Come se non bastasse rifarsi a un quadro che più lo guardi, più noti particolari che prima ti erano sfuggiti, questo triplice passaggio ha danneggiato una certa freschezza, una solennità compatta che era la cifra del Valentino antecedente e ha fatto sorgere in molti l’idea che lo stilista voglia fare a tutti i costi il primo della classe. Con il risultato di un défilé non organico e dissonante, a cui non eravamo abituati.
La Chiuri ha creato dal nulla una collezione in sei settimane, roba da far tremare le vene ai polsi allo stesso Christian Dior, se fosse vivo. E di questo dobbiamo renderle atto, così come siamo coscienti che non si possa giudicare l’andamento di un nuovo direttore creativo alla sua prima sfilata. Ma la standing ovation finale e il responso positivo unanime, indica che è andata nel senso giusto. Ovvero quello di creare abiti per una griffe che di fatto di abiti non ne vendeva più - o quasi - e si regge su un "Duty Free Chic" fatto di profumi, occhiali da sole, qualche borsetta e tantissime creme antirughe. La stilista romana ha scandagliato con attenzione non tanto negli archivi (le poche giacche Bar, emblema della maison, erano ben dissimulate tra altre proposte più aggressive), quanto nel lavoro fatto dai predecessori.
Vedi: le t-shirt con gli slogan in stile Emma Watson che da Harry Potter passa a Simone de Beauvoir (We should all be feminists, titolo di un saggio dell'attivista nigeriana Chimamanda Ngozi Adichi) ma ancor di più Dio(r)evolution. Vedi: l’elastico e il nastro “parlato” con il nome del brand, non esattamente una gag da maison sofisticatissima. Sono dirette discendenti dalle trovate di John Galliano - le magliette con su scritto J’adore Dior - che nei primi anni 2000 hanno venduto a carrettate. Parlano alle Millennials che finalmente troveranno qualcosa di Dior senza incidere troppo sul budget familiare. E Maria Grazia l'ha contratto, come in un sms, in J'Adior.
I meravigliosi abiti da sera con ricamati simboli dei tarocchi - ufficialmente un tributo alla fiducia nelle chiromanti di Monsieur Christian, che però non gli predissero una morte prematura - provengono non tanto dall'esperienza in Valentino, quanto dall’uso lussureggiante dei ricami operato da Gianfranco Ferré quand'era “in da house”, come dicono i rapper. C'è anche qualcosa di autobiografico: l’idea di consegnare alla figura della schermitrice le prime uscite, che perfino Tim Blanks di Business of Fashion non ha capito, a me ha ricordato quando, nella mitica sfilata d’alta moda Mirabilia Romae del 2015, ai giornalisti l’allora indissolubile duo fece vedere i loro luoghi d’elezione. Uno di questi era l’Accademia Musumeci Greco, al Pantheon, una delle più antiche scuole di scherma di Roma: un posto che fa parte del dna di Maria Grazia. Ed è utile a ratificare la simbologia di una donna che deve proteggersi, difendersi e tutelarsi da un mondo che appartiene ancora ai uomini. Lungi dall’essere superficiale, il Dior della Chiuri è semplificato, accessibile, terrestre e realista per progetto e per pesiero stilistico. Non c'è nulla di lasciato al caso o a una certa noncuranza. Infatti tutto è pensato al fine di gonfiare i fatturati, non di accendere emozioni. Il mandato è: "vendere, vendere, vendere", la missione è compiuta, anche con una certa glaciale consapevolezza che punta dritta alla questione. Perciò pronostichiamo a Maria Grazia - noi che chiromanti non siamo - un successo che le permetterà di diventare più fortunata dell’Imperatrice nei tarocchi.
Solo vincitori, nessun vinto. Non c’è stata guerra, almeno in apparenza. Se lo scopo della moda è vendere facendo (finta di) sognare, ognuno dei due - a modo suo - ci ha provato.
Però, ora, non accusate me di cerchiobottismo.
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