Il rapporto d'elezione affettivo ed estetico che legava il conte Hubert James Marcel Taffin de Givenchy a Audrey Hepburn è cosa nota, materiale da Storia del costume, Volume 1. E talmente questa affinità elettiva è stata conclamata – pur essendo vissuta ben oltre gli abiti per le prime e per i matrimoni e per i film, ma raccontata anche da istantanee al filtro seppia che li immortalavano camminare sereni lungo la Senna, due amici che si scambiano confidenze, o magari anche futilità quotidiane – che è riuscita ad adombrare tutte le altre relazioni che il fondatore prima, e i suoi successori alla guida del brand poi, hanno avuto con altre figure femminili, capaci di ispirarli e disegnare i tratti e la personalità della donna che, ad oggi, incarna l'archetipo di Givenchy.

Cominciando dall'inizio, prima di Audrey e degli abiti per Sabrina e Cenerentola a Parigi, fu Bettina Graziani, che, nonostante il nome aspirazionale da socialite internazionale con tenute a perdifiato sulle colline del Valdobbiadene, non aveva nulla di italiano, non si chiamava Bettina, e di cognome non faceva Graziani. La nuova identità di Simone Micheline Bodin, fu idea di uno dei suoi primi datori di lavoro, lo stilista Jacques Fath, per il quale lavorava, agli inizi, anche Hubert. «Ce l'abbiamo già una Simone» - pare disse Fath, pratico, forse riferendosi alla De Beauvoir, già riconosciuta intellettuale e compagna di Jean-Paul Sartre – «tu mi sembri più una da "Bettina"».

Bettina Grazianipinterest
Slim Aarons//Getty Images
Bettina Graziani negli Anni 60 in Costa Smeralda, in uno scatto passato alla storia di Slim Aarons

Uno sguardo magnetico e sicuro, quello di Bettina, una donna consapevole fin dalla più giovane età di quale posto il mondo le avrebbe riservato, forse senza immaginare che avrebbe superato il talentuoso Hubert anche nel grado di aristocrazia – divenendo principessa nel momento del matrimonio con il principe Aly Khan – e che ispirò Givenchy per la sua collezione di debutto nel 1952, dove Bettina aprì lo show con una blusa in lino che da lei prese il nome. Le maniche a balze con i ricami a occhiello, e il collo ampio, sul quale sbocciava il volto di Bettina (née Simone) divennero subito espressione della giovinezza, e di una nuova ventata di freschezza che sfilava negli atelier di Parigi. Convertitasi felicemente in responsabile dell'ufficio stampa del neonato marchio, Bettina fu musa dalle molteplici creazioni, ispirando anche, per procura, Amarige, il profumo del brand, lanciato nel 1991, la cui bottiglia, realizzata da Pierre Dinard, prendeva spunto proprio dalle balze di quella blusa che aveva sfilato più di 30 anni prima.

instagramView full post on Instagram

E tra le mannequin, Hubert fu vicino anche ad altre divinità dell'epoca. A quei tempi non era ancora stato inventato il termine top model, ma forse non sarebbe bastato a descrivere la potenza evocativa di quei volti raffinati e misteriosi, che poi vissero vite degne di uno schermo cinematografico, scandali compresi, eppure mantenendosi sempre distanti dalla banale volgarità, come nel caso delle sorelle Suzy Parker e Dorian Leigh. Texane fumantine, di San Antonio, Suzy comparve a 15 anni su Life e divenne presto donna simbolo di Chanel, oltre che confidente di Coco: ispiratrice di scatti benedetti di Richard Avedon, le leggende raccontano che su di lei sia stato tagliato il personaggio della giovane modella tramutata in star di Cenerentola a Parigi (interpretata, ovviamente, dalla Hepburn), apparendo lei stessa nel film in un cameo di due minuti. Ispirazione di un altro ruolo, sempre, casualmente interpretato dalla Hepburn (la celebre Holly Golightly di Colazione da Tiffany) fu invece Dorian, socialite ritratta da Avedon e poi tra le prime a riconvertirsi agevolmente in un personaggio pubblico, aprendo la sua agenzia di modelle, inanellando 5 mariti e poi scoprendo la sua passione per la cucina, aprendo il ristorante Chez Dorian e tramutandosi in un'imprenditrice di se stessa molto prima di Martha Stewart, con la quale pure lavorò.

Ed entrambe le sorelle furono tra le prime a indossare gli abiti di Hubert, regalando una platea internazionale, grazie alla loro fama già consolidata, alle creazioni del francese. E certo neanche Hollywood si tirò indietro: oltre al suo rapporto d'elezione con Audrey Hepburn, gli abiti Givenchy vennero sfoggiati sul red carpet più famoso, quello degli Oscar, anche da Grace Kelly che nel 1955 vinse il premio per la migliore attrice per il film La ragazza di campagna, e ritirò la statuetta in un abito verde acqua con doppie spalline sottilissime realizzato in collaborazione tra Hubert e la costume designer Edith Head.

Oscar Winnerspinterest
Silver Screen Collection//Getty Images
Grace Kelly in Givenchy agli Oscar del 1955

Quando lo scettro di designer passò tra le mani rivoluzionarie di Alexander McQueen, maestro nell'immaginare donne indipendenti, guerriere e combattive, a prendersi la passerella con la sua falcata fu Naomi Campbell, perno di ebano intorno al quale spesso ruotava l'idea stessa di femminilità della maison. Nei front row degli anni successivi, i dodici nei quali al timone del brand ci fu invece l'italiano Riccardo Tisci, le vibrazioni si spostarono su frequenze ugualmente decise, ma dall'approccio più rock: Courtney Love fu tela perfetta sulla quale raccontare l'evoluzione punk-couture del brand, Madonna si affidò a Tisci per i costumi scenografici del tour Sticky & Sweet del 2008, così come per quelli della performance al Super Bowl del 2012. In quegli anni, sulle colline di Hollywood, invece, imperava l'aplomb di Rooney Mara, attrice dalla pelle d'avorio e dall'aura fatata, eppure dal fascino enigmatico, che indossava spesso, spessissimo, gli abiti della Couture, mostrando una fedeltà alla "maglia" poco comune in tempi di personal stylist e accordi di sponsorizzazione molto poco romantici.

88th Annual Academy Awards - Arrivalspinterest
Dan MacMedan//Getty Images
Rooney Mara agli Oscar del 2016 in Givenchy

Dell'era di Clare Waight Keller, appena conclusa, è stato scritto molto sul suo rapporto d'amicizia con la (ex) duchessa di Sussex Meghan Markle, culminato nell'abito da sposa che Givenchy ha disegnato per lei, in occasione del matrimonio con l'(ex) principe Harry. L'ultima – solo in ordine di tempo – donna emblema di Givenchy, è Charlotte Rampling, testimonial della campagna del brand per questa spring/summer insieme a Marc Jacobs, e non è difficile immaginarne il motivo: enigmatica, androgina, eppure sensuale e seducente, Rampling è sinonimo di una femminilità nuova eppure eterna, che non decade con il passare degli anni ma acquista in fascino e potenza, capace di catalizzare su di sé l'attenzione con un solo sguardo, con una potenza che "buca" lo schermo, senza trascendere mai nella volgare aggressività. Una forza raffinata, e per questo, efficacissima.