I Banksy che si auto-triturano appena venduti, per poi raddoppiare – con grande scorno dell'artista, il cui intento era evidentemente screditare la pomposità di certe aste – di prezzo? Sooo 2018. Adesso il nuovo Sacro Graal a cui ambire sono le sneakers. Una fascinazione che colpisce democraticamente dj in canotta e critici d'arte in blazer di velluto, su modello di quel Jake Gyllenhaal che ne interpreta uno molto temuto nella recente produzione Netflix Velvet Buzzsaw, tagliente spaccato sul mondo dell'arte contemporanea, dove tutto ha un prezzo.

In questo caso a scomodarsi nel fornire i numeri è stato addirittura Forbes, che in un'inchiesta dello scorso settembre, ne snocciola uno su tutti: il mercato globale del footwear raggiungerà entro il 2025, secondo le stime di Grand View Research, un giro d'affari di 95,14 miliardi di dollari. Un risultato dovuto a una congiuntura di cause come l'aumento della popolazione e una rinnovata attenzione a uno stile di vita più sano. In sottotraccia, a fungere da carburante, il “cool factor” di cui sono vittima soprattutto gli americani, quando a indossare quelle scarpe sono i loro atleti preferiti. Un dato corroborato, sempre secondo Grand View Research, dall'aumento delle vendite nei periodi legati a manifestazioni sportive di peso, da Wimbledon alle Olimpiadi.

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Se da un lato influencer profumatamente remunerate e celebs holliwoodiane dalle estremità sfiancate dalla Award Season hanno sdoganato le Adidas Stan Smith sotto tailleur dai profili rigorosi e dall'allure molto cerebrale - anche se l'imprimatur va al signor-Beyoncé-Knowles, Jay-Z, che sul finale degli anni Novanta le indossava già con lo smoking – come si giustificano i prezzi stellari di certe sneakers vendute (e rivendute) tramite eventi dedicati e siti trasformatisi dal giorno alla notte nel nuovo Klondike?

La risposta? Grazie a un sistema che è sorprendentemente legale, dall'altra parte del Pacifico. Il nuovo continente, d'altronde, ha prodotto negli anni Ottanta e Novanta multiple personificazioni cinematografiche e reali di self-made man che si sono arricchiti camminando agili tra i cavilli di leggi e regole, da Gordon Gekko di Wall Street a Donald Trump della White House, figurarsi quando il boom, come in questo caso, è talmente nuovo da non essere ancora regolamentato. Succede che i principali produttori (con Nike in testa, considerato che secondo StockX.com, il 96% delle scarpe vendute sulla sua piattaforma completamente legale, hanno lo swoosh) vendono il prodotto al prezzo iniziale, in limited edition – un concetto fumoso del quale si parlerà meglio più avanti – ad alcuni fortunati rivenditori, tramite una lotteria. Se il paese consente di iscriversi ad una lottery per ottenere la Green Card, la cittadinanza americana, usarla per accaparrarsi dieci paia di Air Max sembra il minimo. Meglio non lasciare nulla al caso, però, la fortuna va aiutata: devono aver pensato così i maggior reseller che pare si avvalgano, come le migliori fashion blogger di Instagram, di bot, ossia profili finti, che consentono loro di iscriversi alla lotteria molteplici volte. Se le piattaforme predilette all'inizio erano le classiche, da ebay a Craigslist, il timore da parte degli acquirenti di comprare a caro prezzo un falso ha spostato i favori degli sneakerhead su altri domini, improvvisamente spuntati sul web, da Flight Club a Goat passando per Sole Stage, e Stadium Goods.

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Funziona in maniera diversa Stock X, fondato dal Ceo Josh Luber: il suo ruolo è di intermediario tra venditore e acquirente, su modello di siti come Vestiaire Collective, ente terzo che si occupa, una volta avvenuta la vendita, di ricevere il prodotto e verificarne l'autenticità prima di spedirlo a chi l'ha acquistato. Un sistema che fa guadagnare Luber solo attraverso le commissioni, pagate da entrambe le parti della compravendita. Commissioni che diminuiscono, se, ovviamente, si vende o si acquista di più, trasformando gli utenti in casalinghe che collezionano coupon e riempiono il garage di casse di detersivo acquistato in sconto. A differenza di Vestiaire, però, i prodotti venduti possono inserirsi in una sola categoria: quella dei nuovi di pacca, assolutamente mai indossati. Non c'è spazio qui per il vostro “in ottime condizioni”. Una volta acquistata, il compratore la reimmette sul mercato, agli eventi dedicati o tramite aste online, ad un prezzo estremamente lontano dal suo reale valore, che era quello iniziale, a cui l'ha venduto Nike.

Non è ingenuo, però, il marchio americano, anzi: un'inchiesta dello scorso agosto di Highsnobiety ha evidenziato come il gigante di Oregon funga da burattinaio, nel dirigere e indirizzare a seconda delle necessità, il mercato della rivendita. I profitti qui valgono tanto quanto l'hype, il clamore e l'aspettativa che certi lanci – o come si chiamano in gergo, drops – portano con sé. Un “cool factor” che Nike sa maneggiare con maestria. Un esempio? Nel 2013 arrivano sul mercato le sneakers What The Le Bron X – le scarpe legate al giocatore di basket sono da sempre in cima ai desiderata degli appassionati – in un numero effettivamente esiguo di esemplari. Il sold out è ovviamente istantaneo. L'anno dopo, arrivano le What The Le Bron XI: Nike ne produce molte di più, ma cosa ne possono sapere i compratori? La velocità con la quale il drop precedente è scomparso dai radar mette ansia, l'euforia sarebbe la stessa se improvvisamente e per motivi sconosciuti, Tim Cook mettesse in svendita a 0,99 le azioni di Apple. Così si esaurisce anche il secondo, e ben più consistente, drop.

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Prospettive di guadagno, quelle che genera il mercato, che fanno gola non solo ai comuni mortali ma anche agli stessi giocatori. Certo, non si parla qui di Cristiano Ronaldo e Le Bron, ma il fatto che come riporta il Washington Post 13 membri della squadra di football del North Carolina siano stati sospesi dalla federazione per aver venduto lo scorso gennaio le scarpe che Nike aveva realizzato ad hoc per il team - a un costo di 2,500 dollari il paio - la dice lunga. Il modello incriminato in questo caso era una variante con i colori della squadra della classica Air Jordan 3 Retros. Prezzo del modello con lo schema cromatico attualmente disponibile nei negozi: 190 dollari.

Un trend che ha obbligato il fashion system e i suoi marchi, molti dei quali sono per DNA anni luce lontani dallo streetwear, a inserire nelle loro collezioni delle sneakers. Se l'idea è sembrata naturale e connaturata alla nuova direzione artistica presa da Balenciaga, guidata dal brutalista dall'Est Demna Gvasalia, le traduzioni cariche di diamanti e bling bling di Jimmy Choo forse potevano essere evitate. Ed effettivamente la penna del New York Times, Vanessa Friedman, aveva già tuonato a settembre contro quest'ostinazione a seguire improbabili tendenze, invece di concentrarsi sull'elaborazione di idee nuove, e più coerenti con uno spirito di ricerca ed evoluzione, in un editoriale chiamato “La stagione del picco della stupidità da sneaker”.

Nel frattempo, però, i futuri Gordon Gekko hanno approfittato del boom, dimostrando che quella spiccata inclinazione all'imprenditorialità batte, sempre e comunque, bandiera americana. Presentarsi alle 7.30 di sabato mattina – giorno nel quale negli Stati Uniti arrivano sugli scaffali i nuovi modelli – nel proprio negozio di sneakers, acquistando (e poi rivendendo a caro prezzo) i modelli più difficili da trovare, paga. L'esempio vivente è Sneaker Don, nome – ovviamente d'arte – di Benjamin "Kickz" Kapelushnik, teenager che ha iniziato vendendo le sue scarpe ai compagni di classe in quarta elementare, per auto-finanziarsi e comprarsene di nuove, che poi avrebbe immesso nel mercato. Con un esordio del genere, non stupisce che sia a capo di un business che tre anni fa, secondo CNBC, ammontava a 1 milione di dollari.

Oggi il diciannovenne è lo sneaker-pusher di personalità e celeb con le quali si ritrae su Instagram, da DJ Khaled alla star del football americano Odel Beckham Jr.. Il suo merito è quello di aver percepito dove si stava dirigendo l'onda delle tendenze, e cavalcarla. Speriamo che abbia la stessa sagacia nello scovare la prossima, perché se anche le banche di investimento di Manhattan che creano bolle immobiliari ad hoc non sono più “too big to fail” (e da Lehman Brothers avrebbero molto da dire a riguardo), chissà cosa succederà alla bolla, ormai oversize, del mercato delle sneakers.