Se in America la Ugg-mania aveva già conquistato nei primi 2000 – divenendo uno dei simboli attraverso i quali si emanava il glamour delle starlette dell'epoca, ancora più potente se in combo con la felpa in ciniglia di Juicy Couture – in Italia gli stivali Ugg con interno in pelo, hanno causato il nascere di due fazioni contrastanti. Tra chi ne perorava la causa, abdicando di fronte al peccaminoso piacere di indossare un comfort-boot nato sulle coste californiane per riscaldare, tra un tuffo e l'altro, i piedi dei surfer, e chi ne decretava l'insindacabile bruttezza, inaccettabile nel paese che aveva dato i natali al Rinascimento, la lotta si è consumata nello spazio di qualche anno. Se Paris Hilton, Lindsay Lohan e Britney Spears hanno facilmente convertito al trend gli abitanti degli Stati Uniti tra una costa e l'altra, in Italia non si ricorda nessuna celebrity che li abbia mostrati con orgoglio: d'altronde la mitologia legata alla California, sapientemente costruita da quattro decadi a questa parte, concede e ammette eclettismi che altrove si rivelano per quello che sono, ovvero estremismi divertenti solo quando patrimonio di un circolo ristretto (ab originem i surfer, in seguito tutte le modelle all'uscita di una lezione di yoga vinyasa a West Hollywood, infine il resto della popolazione, semplicemente troppo pigra per disturbarsi a cambiarsi di calzatura prima di uscire per andare al supermercato poco distante). La diluizione del messaggio originale, la sua democraticità nell'essere esteticamente disturbante addosso a chiunque, ne decretò allora il successo americano, ma insieme, ne predisse la breve durata. Eppure, se nell'anno della pandemia, l'azienda ha registrato un +2,5% nei profitti – un margine risibile, ma dalla portata mastodontica se invece si pensa a tutti i brand in salute che hanno dovuto abbassare le serrande per sempre – e Lyst certifica che da inizio settembre, le ricerche salgono del 24% a settimana, qualcosa si sta muovendo. Le 41 mila ricerche effettuate nel mese di settembre (sempre secondo i dati di Lyst), non possono essere totalmente dovute a una collettiva e contemporanea nostalgia dei primi Duemila, anni ruggenti nei quali il magico trio Spears-Lohan-Hilton regnava sulle strade di Los Angeles, falcando sicure le strade della metropoli proprio con gli stivali incriminati.

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Il percorso di Ugg per (ri)guadagnare quella che in America chiamano "street credibility", banalmente una reputazione degna di essere sfoggiata, è iniziato, secondo però diversi anni fa, precisamente nel 2016, quando a guidare il brand in qualità di presidente è arrivata Andrea O'Donnell, muovendosi dalla catena di comando dei grandi magazzini di lusso Lane Crawford. La ricetta? Un mix di comprovato successo, fatto di product placement indosso alle celeb che godono di uno status riconosciuto – dagli americani – di icone di stile, e collaborazioni ad hoc. E in effetti, la prima a esibirli, di nuovo è stata Rihanna. E però la cantante di Barbados non ha indossato il classico boot, ma una variante dalle proporzioni gargantuesche, un cuissarde formato maxi, che ha sfoggiato nel luogo dove nascono – e si consumano – tutti i trend formato Instagram: il Coachella (nel 2018).

Frutto della collaborazione tra il brand e Glenn Martens, creativo dietro Y/Project, fu quello l'indizio su come si sarebbe mosso, nelle successive stagioni, il marchio principe della categoria "scarpe brutte" (gruppo fattosi folto nei primi anni 2000, insieme alle Crocs, e finanche alle Birkenstock, che sono però riuscite agevolmente ad allontanarsi dalle critiche estetiche, innalzandosi nell'empireo dei brand intellò, tramite collaborazioni con Valentino e Rick Owens, tra gli altri). Consapevole di non poter ambire, per la sua genetica indubbiamente pop, a partnership con le maison blasonate, Ugg ha quindi puntato su realtà di nicchia, ma dotate di un'ambita quota di riconoscibilità, attraenti per gli addetti ai lavori, che di certo non indossavano prima Ugg – o almeno, non lo dichiaravano pubblicamente. In questo senso sono andate le collaborazioni con Molly Goddard, che ne ha fatto delle platform maxi per la sua collezione primavera/estate 2021; quelle con Jeremy Scott (boot con fiamme stampate); Phillip Lim (che invece ne ha ricordato l'estetica figlia dei surfer che domano le onde a tempo con una qualunque canzone dei Beach Boys); Eckhaus Latta, con dei clog; e infine Stampd, brand di streetwear statunitense la cui versione, quella più esteticamente accettabile, fu subito definita da Highsnobiety, con un filo di partigianeria, "il picco delle calzature per lavorare da casa".

E in effetti, non si può negare l'improbabile favore giocato al brand da una pandemia che altrove ha fatto irreparabili danni: chiusi nella sicurezza delle proprie quattro mura casalinghe, lontani dai giudizi altrui e dalla necessità di conformarsi alle leggi sociali non scritte sul "come presentarsi al mondo", si è capitolati di fronte al confort rassicurante delle pantofole in pelo – il modello definito Fluff –oppure al Mini – il classico boot Ugg che il brand non ha comunque mai rinnegato perseguendo nella sua opera di fidelizzazione – filone di marketing dedicato a chi, invece, si era già convertito quasi 15 anni fa. Un'opera portata avanti attraverso sponsorizzazioni con figure note, ed invece estremamente pop, da Emily Ratajkowski, agli ex angeli di Victoria's Secret Irina Shayk, Jasmine Tookes e Joan Smalls – tra i sandali con tacco a spillo indossati sulle passerelle del brand di intimo e le ciabatte pare non sia possibile trovare una "terza via".

L'ultima, è più attesa mossa del brand, è la limited edition di Ugg in uscita a gennaio insieme al wunderkind della moda americana, Telfar Clemens, mentre sono state già pubblicate le foto della campagna, il cui protagonista è un'icona degli Anni 90, il cestista Dennis Rodman, ieri mercuriale compagno di squadra di Michael Jordan, oggi celebrato come alfiere primigenio della fluidità vestimentaria. Se, insomma, la strategia del passato era normalizzare la sgradevolezza estetica, renderlo un canone rassicurante nel quale tutti potevano rifugiarsi, oggi è quella di farla passare per tendenza di rottura, intrinsecamente artistica ça va sans dire, a connotare delle caratteristiche di libertà di pensiero (stilistico), indifferenza voluta rispetto agli antichi canoni di bellezza, ribellione dadaista. In America, a quanto pare, sta già funzionando. Succederà anche da noi?