Leggings: la nuova pietra dello scandalo. Per quanto improbabile quest'affermazione possa suonare a leggere le cronache recenti, nel qui e ora anno 2019. Se qui si può avere idee contrastanti circa lo specifico capo d'abbigliamento, nato come alleato per lo sport e poi trasformatosi in un'alternativa – improbabile o meno, a seconda dei gusti – ai jeans o a pantaloni casual, trasformarlo nel vessillo di una società che sta andando dritto verso la rovina, l'abbandono del decoro e dei bei tempi che furono, sembra forse eccessivo. Non l'ha pensata così lo scorso mese la signora Maryann White, madre di quattro figli, che si è prodigata in un'accorata richiesta alle ragazze che frequentano il college di St. Mary, nell'Indiana. Sul giornale universitario The Observer, condiviso dalla St. Mary e dall'Università di Notre Dame – istituto cattolico, a questo punto sembra fondamentale ricordarlo – la signora ha rivolto un'accorata richiesta alle esponenti del gentil sesso, chiedendo loro di abbandonare l'utilizzo dei leggings, colpevole di costringere gli universitari a degli sforzi di autocontrollo forse eccessivi per un essere umano nato già con i cromosomi giusti, per potergli chiedere anche di comportarsi di conseguenza. Ovviamente hanno fatto seguito le prevedibili risposte, i sollevamenti di scudi e un hashtag creato ad hoc, #leggingsdayND dove uomini e donne, in solidarietà, si ritraevano con indosso il corpo del reato.

I leggings non sono però nuovi a queste polemiche: nel 2017 la United Airlines aveva impedito a due teenagers colpevoli di indossarli, di imbarcarsi, mentre le aziende – più furbe – offrivano uno sconto del 20% a chi esibiva un biglietto della poi vituperata compagnia. Insomma, al pari della minigonna di Mary Quant negli Anni 60 o degli hot pants negli Anni 70, i leggings muovono coscienze (indignate o no). Se però sono da considerarsi la pietra dello scandalo degli Anni 10, non si parla qui certo di uno zircone di poco valore.

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Il brand di abbigliamento sportivo Lululemon, soprattuto di yoga, ha visto lo scorso anno i suoi profitti salire del 21%, mentre Levi's è ritornata a quotarsi a Wall Street con un'IPO – acronimo del gergo finanziario che sta per Initial Public Offering, cioè la sua quotazione in Borsa – sorprendentemente alta. Secondo fonti ufficiali dell'azienda, il risultato è stato possibile grazie al successo dei suoi jeans stretch, un'eresia per molti puristi del denim che però ha incontrato i gusti di molti altri, più desiderosi di indossare un capo confortevole che preservare la tradizione.

I prezzi, così, si allineano: un legging Lululemon in Nulux, tessuto tecnico ad asciugatura rapida, con tasca per infilare il cellulare mentre si corre, è in vendita sul sito a 128 dollari. Ma le scelte sono variegate, se si vuole indossare il capo non solo per la lezione di yoga, ma anche per impegni casual, dalla spesa nel supermercato di quartiere alla passeggiata con il cane. Quelli di Outdoor Voices, ad esempio si tingono di cromie fluo o bicolor, ma al contempo sono in tessuto tecnico con fascia in vita che modella e controlla i movimenti anche durante gli esercizi ad alta intensità. Inoltre, sul retro, sono forniti di una tasca per le chiavi o il cellulare, nel caso si decida di fare a meno anche della borsa. Prezzo dell'operazione: 98 dollari. A pensarlo qualche anno fa, non ci avremmo creduto.

Non mancano in questo quadro i brand eco, dall'anima sostenibile: è il caso di Girlfriend Collective, che realizza i suoi prodotti da materiale riciclato. Se i Compressive a vita alta si costruiscono grazie a bottiglie in plastica – nello specifico, per ogni pezzo se ne riciclano 25 – i Lite, quelli adatti ad attività che richiedono maggiore flessibilità, sono fatti di reti da pesca riciclate.

Sulla stessa scia di consapevolezza sociale si muovono altri brand, come Teeki, che, nello stesso modo di Girlfriend Collective costruisce la sua collezione utilizzando materiali di riciclo, o il canadese Titika, che non manca di rivendicare le sue aspirazioni nel claim “Athletic Couture”. I suoi leggings sono realizzati seguendo pratiche di produzione e manifattura etiche, utilizzando consistenze materiche all'avanguardia come il Supplex, o con tecnologie brevettate come la Celiant, che migliora i livelli di ossigenazione del tessuto, e di conseguenza le performance atletiche, anche se, come scrive nel suo brand profile sul sito, i leggings non sono più ormai confinati alla palestra, ma possono essere indossati in ufficio o per uscire la sera.

Il settore lusso di quella che sembra ormai una categoria merceologica a parte vede Lululemon contendersi il primato con Vyayama. Sul suo profilo Instagram i pantaloni realizzati in tessuti sostenibili – le cui probabili tossine coinvolte nel processo di produzione non possono essere assorbite dalla pelle – sono protagonisti di servizi fotografici che sembrano scattati da Steven Meisel. Qui la protagonista affronta non una sessione sudaticcia di cardio o di Pump, ma si muove con spirito degno di un esploratore artico, attraverso continenti e panorami naturali, rive di spiagge e ghiacciai. I leggings qui si abbinano a felpe in cashmere, ovviamente sostenibile, non scherziamo. Tanta consapevolezza, però, costa al portafoglio: i pantaloni stampati Sunset shadow, in Tencel e Elastane, si pagano 170 dollari.

Un mercato che si sta velocemente riempiendo di competitor, tutti uniti nel voler regalare dignità di capo d'abbigliamento a tutti gli effetti a quello che, fino a ieri, era considerato poco più che un'alternativa comoda al pantalone della tuta. Un dibattito, quello sui leggings, che infuria maggiormente negli Stati Uniti, dove quella cultura di abbigliamento atletico è nata negli Anni 90: persino Presidenti come Bill Clinton non lesinavano apparizioni in pantaloncini mentre, seguito dalla scorta, faceva running nei pressi della Casa Bianca. Si fa fatica ad immaginare il suo contraltare italiano, un Oscar Luigi Scalfaro o un Mattarella, fare lo stesso. Un processo di rivoluzione culturale, che sancisce una nuova attitudine al guardaroba che, condivisibile o meno, è stata commentata sul New York Times da Vanessa Friedman in un editoriale dal titolo È possibile che i leggings siano il futuro. Fatevene una ragione”. Se per le generazioni precedenti, come la Generazione Y, sostiene la Friedman, i leggings avevano a che fare con un certo stile di vita sano e l'attività fisica, per la Generazione Z, che rigetta le uniformi e le etichette tradizionali, sono un'alternativa ai jeans, da indossare senza farci molto caso. Un'attitudine che li inserisce a pieno titolo nella rivoluzione del guardaroba degli ultimi anni, nel no gender e nella negazione convinta di qualunque collegamento tra abbigliamento e definizione dell'identità (personale, quella sessuale non passa certamente attraverso i vestiti, come pure crede la signora Maryann White degli inizi). Sembra tutto molto moderno, e decisamente fluido, ma è forse possibile che, di fronte alla pletora pressoché infinita di scelte del nostro guardaroba, si scelgano, un po' per pigrizia, i leggings rimasti sulla sedia?