«Gli anziani odiano i driver che parcheggiano male. I passanti odiano i fashionisti che bloccano il paesaggio. I fotografi odiano i passanti che impallano tutto. I fashionisti odiano gli operai che li fissano ridendo. E tutti vengono trattati a pesci in faccia dai cinesi dei bar», scrive in un tweet l'amico sceneggiatore Fabio Vassallo. Duole dirlo: ha ragione.

La Milano della moda rischia di diventare antipatica. Ridotta a un weekend appena un po’ prolungato (inizio venerdì sera, finale lunedì pomeriggio) la fashion week perde ai punti con il Pitti di Firenze per magniloquenza di location, per un calendario che penalizza i (pochi) nomi nuovi presenti, per l’assenza di eventi collaterali di ampio respiro culturale, consegnando ai marchi il non facile compito di trasformare le sfilate in qualcosa di più che non una parata di abiti da vendere per l’estate del prossimo anno. Così quello che dovrebbe essere il luogo prioritario dell’estetica vestimentaria italiana, soprattutto nel campo dell’abbigliamento maschile, rischia di appannarsi, di diventare irrilevante perché non più paradigma da seguire.

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Ermenegildo Zegna

Peccato, perché ci sono state intuizioni e situazioni memorabili che hanno posto al centro dell’attenzione problemi sociali, ambientali, perfino psicologici. Prima tra tutte la sfilata di Ermenegildo Zegna, allestita negli spazi delle ex acciaierie Falck a Sesto San Giovanni: un’altissima prova creativa e riflessiva di Alessandro Sartori, che ne è il direttore creativo, e con questo défilé si conferma tra i migliori autori di oggi. Oltre la potenza del luogo, così impressionante da non sfigurare in una prossima stagione di Black Mirror, tra terreni bonificati dall’amianto (ci assicurano davvero) e fumi infernali (ci assicurano finti) che si sprigionano dal suolo, un monolite di metallo altissimo si dischiude per far passare un fascio di luce a illuminare i modelli. Ed è una collezione dove la bellezza di abiti perfetti, eleganti, formali senza essere noiosi, in una tavolozza di colori indecisi tra l’apocalittico e il classico – rosa melanzana, beige, panna, blu polverosi, ruggine – per veicolare la possibilità di realizzare davvero, e con risultati portentosi, una moda sostenibile: laddove amare il pianeta non vuol dire lavorare in addizione ma in sottrazione, eliminando, cioè, tutti gli sprechi. Nella filiera del prodotto la moda è responsabile anche delle emissioni di anidride carbonica dannosissime per la salute di tutti e di tutto quello che ci circonda: secondo Sartori, il 20 per cento della lana usata per un abito viene perduto durante la filatura del tessuto, un altro 20 per la tessitura, e infine ancora un 10 durante la fase di taglio. Recuperare tutto questo materiale per mischiarlo con “nuove” fibre, come il nylon, permette di ridurre i costi, abbattere la quantità di tessuto usata di solito e concede di mettere in atto un circolo virtuoso perché, una volta smessi, i tessuti potranno essere riciclati ancora, ancora e ancora. Grazie a Sartori, a al suo design perfetto, accurato, da sarto d’atelier, è possibile trovare una nuova strada che colleghi desiderabilità a impegno ambientale, senza rinunciare a nessuno dei due.

Del resto, tutte le sfilate viste finora, oscillano tra l’escapismo, quel desiderio di andarsene che tutti coltiviamo nel cuore, e il realismo di un mondo distopico che prima o poi bisognerà affrontare. C’è la fuga nel passato, con la consueta opulenza, di Dolce & Gabbana: per la prossima estate si rifugiano, con inconsueto e sofisticato humour, in un’era di film hollywoodiani dove intrepidi esploratori si vestono di sahariane o di lunghi trench in organza e chiffon maculati, zebrati, leopardati, per andare a salvare la bella ragazza rapita dal King Kong di turno. Ma King Kong non c’è, si fa sostituire da stampe di giungle lussureggianti, e le pin-up sono solo un décor sul taschino, mentre la silhouette ripercorre quella fluida degli anni 80, quella snella dei anni 90 e quella rilassata dei primi 2000.

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Dolce & Gabbana

C’è la fuga nel presente, come quella di un “fare moda”, esprimendo la propria identità, fondata su un background, su esperienze e visioni/convinzioni fortemente personali. La sfilata di Simone Rizzo e Loris Messina, il duo dietro il marchio Sunnei, uno dei più interessanti tra quelli giovani del Made in Italy, organizzano una sfilata asettica, luminosa e genderless sotto un cavalcavia in una delle zone periferiche di Milano, il quartiere Rubattino, dove hanno intenzione di acquisire uno spazio che diverrà centro polivalente per mostre, convegni, ma anche feste, destinate a chi nel quartiere ci vive o lo vuole scoprire. C’è la fuga nell’ironia, come quella di Dorian Tarantini per M1992, brand molto intelligente come chi la disegna: una satira sull’estetica del fighetto milanese con abiti “perbene” dove le cravatte realizzate in collaborazione con Marinella, il mito dell’accessorio borghese maschile, fanno da contrappunto alle borse realizzate appositamente con un’azienda leader della tecnologia, sulla cui patella viene proiettato all’infinito un film di paparazzi che scattano, riprendono, fotografano: perfetta metafora della cultura dell’immagine che è più selfish (egoista) che selfie. Il designer – già protagonista delle notti milanesi, visto che è stato per anni il dj del Plastic, la più nota discoteca della città – la conosce talmente bene da scherzarci sopra (e sforna una serie di capi desiderabilissimi).

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Sunnei

C’è la fuga vera e propria, verso l’infinito e oltre: Etro presenta una collezione d’ispirazione nomade – indiana? Pakistana? Andina? – che s’intreccia alla perfezione con C-3PO, droide protocollare di forma umanoide e R2D2, droide specializzato nella riparazione di navi spaziali. Ovvero gli eroici robot di Star Wars, per cui il marchio produrrà una minicollezione, di cui 12 pezzi saranno in vendita già dal primo luglio, grazie a una partnership con la LucasFilm. Da Versace, invece, lo spirito aggressivo delle auto in corsa (sulla passerella ne troneggia una tutta fatta di fiori), diventa il simbolo di una ribellione che scappa dalle convenzioni ma non dalla classe e celebra Keith Flint, il frontman dei Prodigy (tutta loro la colonna sonora della sfilata) che era andato proprio da Donatella per il suo ultimo show in Italia nel 2004, dicendo che «Milano è una città che profuma di sesso e morte»: pelle nera e stampe lisergiche, completi Principe di Galles e cravatte, un grandissimo ritorno, qui interpretate in maniera quasi punk, anche da un’esponente top della Generazione z, Gigi Hadid.

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Etro

Ma è con la sorprenente sfilata di Marni che si torna al punto di partenza, quello dell’ambientalismo, giocato in chiave onirica e poetica: una voce fuori campo racconta di essere MC Magma, spirito loquace della trasformazione arrivato a celebrare le nozze tra Truman Capote ed Ernesto Che Guevara, un’unione tra due anime e le rispettive livree. Il pubblico assiste, in piedi, sotto un mare sterinato di bottiglie di plastica raccolte dal mare: ed è solo l’inizio di una processione di strani ragazzi che sposano cappelli sontuosissimi e femminili (ma fatti con materiali di recupero dall’artista Shalva Nikvashili). Una festa pagana, pansessuale, pagana e spirituale, dove gli spiriti di Ernesto e Truman governano i completi uniti ma con una manica in colore diverso, i pantaloni sono sovrapposti ma uno è lasciato penzolare, le giacche camouflage ma in colori da caramella. Un Carnevale di sensazioni e forme e colori che solidifica l’estetica inquietante e sghemba di Francesco Risso, direttore creativo. E rimette in un gioioso disordine tutto quello che ci sembrava “sensato” fino a un paio di anni fa. Strano? Certamente. Elegante? Non importa? Stimolante? Moltissimo. Sarebbe stato bello se anche la città vi avesse potuto partecipare.

La Milano della moda alla fine è interessante perché molti sono bravi. Ma forse, solo questo non basta per trattenere fuggitivi compratori, giornalisti che a Firenze sono volati a Parigi, addetti ai lavori che, esasperati, diventano addetti ai livori.

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Marni