Artista, designer, e modello: le molte vite di Cali Thornhill Dewitt, dalla copertina degli album dei Nirvana a icona culturale (anche) per Trussardi. Una vita che si meriterebbe un libro.

Quando lo si incontra, in un garage milanese allestito ad hoc per la presentazione del terzo capitolo di Archive+Now, progetto di rivisitazione dei lemmi estetici di Trussardi – da lui indossati negli scatti di Francesco Nazardo – la t-shirt con la stampa del levriero non copre i tatuaggi che gli decorano le braccia. Fuma una sigaretta, senza fretta, appare rilassato, sorride spesso mettendo in mostra i denti d'oro. Eppure il nativo canadese, trasferitosi in California a tre anni, nella sua Los Angeles è considerato un esponente di spicco della scena culturale, e insieme uno dei più riservati. «In un momento nel quale condividiamo sui social tutto quello che mangiamo, dalla colazione alla cena, ai lacci delle scarpe, i posti dove andiamo in vacanza, mi piace la discrezione. Credo che in questa costante ansia da condivisione, si perda qualcosa». E, in effetti, quando ha creato per Kanye West le felpe destinate al merchandising dell'album Life of Pablo, così come la maglia commemorativa di sua madre, che il cantante ha indossato in occasione del lancio di Tidal – la piattaforma musicale fondata da Jay-Z – non ha rilasciato nessuna dichiarazione in merito, solo una sibillina foto sul suo profilo Tumblr, nel quale suo zio e il suo vicino indossavano le giacche della linea. «Non ero a mio agio con l'idea di salire sul tetto del palazzo e urlare “Guardatemi, guardate cosa ho fatto”, non fa parte di me. Quando Giorgio (Di Salvo, il designer autore della capsule, ndr) mi ha chiesto di essere il protagonista degli scatti di Archive+Now, è stata tutt'altra storia. Stavo cenando, ero in Giappone quando ho ricevuto la sua chiamata, ho detto subito sì: era il giorno del mio quarantaseiesimo compleanno, e ho scoperto che più invecchio, più mi diverto nell'essere dall'altra parte della macchina fotografica».

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Dall'altra parte della macchina fotografica però, Cali Thornhill Dewitt ci è già stato: era appena adolescente, quando, truccato e vestito in reggiseno e calze nere, apparve sulla copertina di In utero, terzo album dei Nirvana. Entrato nel circolo di Kurt e Courtney, accompagnò poi le Hole in tour, con il compito di fare da babysitter a Frances Bean Cobain, la figlia della coppia. «Era il 1991, ti pagavano 12 dollari al giorno, e ho avuto l'opportunità di vedere New York per la prima volta» ha recentemente dichiarato. «Nonostante ciò, non ho mai desiderato essere il Kato Kaelin (testimone del maxi-processo a O.J. Simpson, da quel ruolo ricavò una discreta fama, ndr) del grunge. Essere famoso solo perché ero presente all'epoca, non fa parte di me». La decisione di tornare a fare da modello, però, è dovuta anche all'amicizia con Giorgio Di Salvo, designer che ha già collaborato con Virgil Abloh e fondatore di United Standard, a cui Trussardi ha chiesto di immergersi nell'archivio, ed uscirne fuori con una capsule collection da uomo e donna che sarà in vendita entro fine anno. Definito da High Snobiety come “il futuro dello streetwear italiano”, Di Salvo ha incontrato Cali a New York, diversi anni fa. «Ho pensato che avrebbe potuto essere il mio migliore amico, fin dal primo momento» confessa lui. «L'idea era di recuperare dei canoni estetici del marchio, soprattutto degli anni 90, e riportarli nella contemporaneità». Così le jumpsuit sono (ovviamente) in pelle, le t shirt si disegnano con il levriero simbolo della maison, e i gilet e i marsupi – feticci della decade – tornano con volumi e silhouette adatte ai giorni nostri. Le metallerie, zip e bottoni, hanno una finitura rainbow, che ricorda il colore delle marmitte quando si scaldano, un riferimento alla passione familiare per le macchine, di cui Tomaso Trussardi è collezionista – ed alcune sono infatti presenti negli scatti. «Una passione che condividiamo: fin dall'inizio è stato chiarissimo cosa volessi, e chi volessi nel progetto. Ho chiamato Cali, gli ho mandato alcune immagini, ho cercato di spiegargli l'heritage del brand e il potenziale dietro questo progetto, e lui, semplicemente, mi ha detto sì».

Una naturalezza, quella di Dewitt, fondatore nel 2000 dell'etichetta musicale Teenage Teardrop – label focalizzata sulla scena underground di Los Angeles, per la quale realizza anche i video e gli artwork delle copertine – che si deve alla magia delle affinità elettive. Se nel caso di Di Salvo, Dewitt ci ha visto “il talento più promettente della scena milanese attuale”, quando a chiamarlo è stato Virgil Abloh, molto prima di divenire direttore creativo di Louis Vuitton, la procedura è stata tutt'altro che ortodossa. «Mi ha scritto su Instagram, abbiamo iniziato a parlare, c'è stata da subito intesa. Quindi quando mi ha chiesto di realizzare un'installazione per il Dover Street Market di Ginza, e poi una capsule per Off-White con le mie stampe, gli ho detto di sì». Artista che mischia collage e fotografia, con all'attivo diverse mostre – al Karma International di Los Angeles e alla Stems Gallery di Bruxelles, con una in programma alla Lafayette Anticipations di Parigi per la prossima settimana – gli scatti sono influenzati da Nan Goldin e il suo libro Ballads of Sexual Dependency, che ha scoperto a 19 anni, e che si portava dietro nel suo zaino, insieme allo skate e al quaderno per disegnare. Nonostante ciò, non sembra affetto dall'idealizzazione del passato che accomuna chi, per caso, si è trovato ad essere testimone di momenti passati alla storia. Innamorato di Los Angeles molto prima che entrasse sotto i riflettori di moda e design, ha qui fondato la Hope Gallery nel 2008, ma ha iniziato lavorando al Jabberjaw, club al 3711 di Pico Boulevard dove, fino al 1997 – anno della chiusura – si sono esibiti gruppi come i Weezer, i Beastie Boys, Beck, e ovviamente, i Nirvana. E le magliette da lui realizzate (indossate tra gli altri da personaggi come Young Thug e Frank Ocean), sono infatti un omaggio alla comunità chicana – i messicani che risiedono negli Stati Uniti – che realizzava felpe simili, incidendo sul tessuto i nomi di parenti o amici scomparsi, per portarne addosso la memoria. «Me ne ero fatte realizzare alcune, da loro, a questi mercatini delle pulci a Los Angeles, diversi anni prima. Anni dopo, sono tornato, ma, complice l'avanzare delle tecnologie, si utilizzava la sublimazione, un processo digitale per tingere, di certo più semplice. Sono riuscito a trovare i materiali originali, anche perché non volevo quella tradizione andasse persa. Se c'è qualcosa che mi preoccupa della gentrification a Los Angeles è che questa comunità, che ha fatto molto per la città, venga spinta ai margini, nella periferia, dagli affitti ormai troppo alti. Ma è una città immensa, e le sue radici sono anche messicane, quindi dubito succederà. Anche se, pur non essendo una di quelle persone che rimpiangono il passato, quella magia che c'era in città vent'anni fa, qualunque cosa fosse, oggi non è più lì. E va bene così».