Basta fast fashion, la soluzione green a tutte le nostre ansie da prestazione nell'armadio, è nel noleggio di abiti di marca online (e offline). Ne siamo davvero sicuri? Il mercato della condivisione di abiti e accessori, da affittare per una notte o per un mese, ha preso piede da tempo in America e Cina, e sta arrivando di gran carriera anche in Italia, accompagnato da trionfali colonne sonore, in stile Cavalcata delle valchirie di wagneriana memoria, che ne magnificano le qualità eco. Lo sposalizio perfetto tra green economy e femminee necessità di rinfrescare l'armadio – o anche avere a disposizione, a prezzi ridotti, un abito per un'occasione speciale che altrimenti non avremmo mai potuto comprare – nel 2023 varrà, secondo una recente ricerca di Allied Market Research, 1,7 miliardi di euro. Un obbligo, più che una scelta, sembra, a leggere le catastrofiche (e purtroppo veritiere) previsioni sui consumi del settore tessile: nel 2050, se non verrà fortemente regolato, questo comparto sarà responsabile, per 1/4 dell'impronta di carbonio globale, contribuendo in maniera sostanziale alla crescita delle temperature, che saliranno di 2°, rendendo la vita impossibile in diverse aree del pianeta. Risultati di cui, in parte, siamo noi ad avere la colpa: la vita media degli abiti, negli ultimi 15 anni, si è ridotta del 36% (meno di 160 utilizzi) – complice la minore qualità del fast fashion al quale ci si è colpevolmente abituate – e ogni anno, solo in Europa, si producono 16 milioni di tonnellate di rifiuti tessili. Così, in America sono nati esperimenti di successo come quello di Rent the Runway o Le Tote, mentre molti brand si convertono al servizio, magari offrendo in affitto capi esclusivi, che non fanno parte delle collezioni che si possono acquistare online o nel negozio (tra gli altri ci sono Banana Republic, Urban Outfitters e Bloomingsdale's). Persino – ironia della sorte – uno dei colossi del fast fashion, H&M, ha da poco annunciato che nel suo nuovo store di Stoccolma, a Sergels Torgels Torm, i clienti del programma fedeltà potranno noleggiare abiti della Collezione Conscious, quella realizzata con materiali sostenibili, per una settimana, a un costo di 350 corone svedesi (l'equivalente di 32,50 euro).

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E in Italia? La start-up milanese Dressyoucan ha lanciato il suo servizio di noleggio quattro anni fa, aggiungendo solo di recente la sezione bridal: si possono così affittare abiti brandizzati, adatti a tutte le taglie, ma anche le Manolo Blahnik con le quali Carrie ha atteso (invano) l'arrivo di Big all'altare in Sex and the city, Valentino e Jimmy Choo, Louboutin e Saint Laurent, così come accessori instagrammabili – uno su tutti, l'ormai iconico maxi cappello in paglia La bomba di Jacquemus. Nel 2016 Forbes l'ha inserita tra le 10 aziende in grado di rivoluzionare il mondo della moda così come lo conosciamo, e la sua fondatrice, Caterina Maestro, è stata premiata a marzo al Senato nella categoria Service Design, con il progetto Rivesti il cambiamento. L'altro progetto, tutto italiano, è quello di Twinset, che ha lanciato a settembre Pleasedontbuy, capsule di abiti da cocktail e da sera che non fanno parte della collezione del marchio presente nei negozi, ma che si possono noleggiare per un costo che parte dai 40 e arriva ai 100 euro. Nelle parole di Alessandra Varisco, ceo di Twinset, tra gli altri obiettivi c'era "educare alla qualità i giovani che non possono permetterselo". E in effetti, proprio alla generazione Z degli under 25 punta il servizio, che, nelle cifre di Varisco, "al momento rappresenta solo il 5% della nostra clientela". Intenti che trovano conferma nelle parole di Giovanni Maria Conti, docente di storia e scenari della moda al Politecnico di Milano. "Questo tipo di servizio è diretto in maniera dichiarata alle generazioni Z e ai Millennial, in quanto quelle che sono più attente ai temi della sostenibilità".

Tutti felici, senza (troppi) vestiti nel guardaroba, e correlati sensi di colpa? Non proprio. Se, dalla sua parte, il noleggio di abiti ha degli indubbi meriti, come quelli di "democratizzare", in alcuni casi, un abbigliamento di alta qualità, che viene reso accessibile a tutti, senza produrre rifiuti tessili, non si può pensare che questo servizio non abbia un costo, o sia esente da peccati. Il primo? La spedizione, che si effettua tramite corriere, così come il reso: un furgone carico di merce che viaggia per lunghe tratte ha un impatto ambientale non di certo irrilevante, e, solo negli Stati Uniti i trasporti rappresentano la fonte più alta di emissioni di anidride carbonica. Parlando di numeri, secondo Josué Velázquez-Martínez, direttore del master in Supply Chain Management al Mit – il Massachussets Institute of Techonology, uno dei maggiori centri di ricerca al mondo – sostiene che "un ordine inviato, e poi reso, produce 20 kg di carbonio, che salgono a 50 nel caso di consegne rapide. In ogni caso, più di quanto costa, in termini ambientali, la logistica classica che porta gli abiti delle catene fast-fashion nel negozio fisico. L'alternativa è stata già indicata però, da giganti come Amazon, che si stanno dotando di flotte elettriche per le consegne, mentre Dressyoucan in Italia, si affida a Takemything, servizio di delivery nel quale sono gli utenti stessi, registrati e rintracciabili, che si spostano per loro esigenze personali, a consegnare o a richiedere una consegna. L'utente può scegliere chi deve trasportare il suo pacco, riducendo considerevolmente le emissioni di Co2, ma sono ancora in pochi, a essere così visionari.

Il secondo, grande problema è l'imballaggio, plastica e scatole di cartone – che, sorpresa, richiedono molta acqua ed elettricità per essere riciclate, quando è possibile. La velina in carta che normalmente avvolge i capi, invece, riciclabile non lo è per niente. E il lavaggio? Su molti siti, compresi Dressyoucan, i vestiti vengono riconsegnati, e di conseguenza lavati a spese del servizio (quindi gratuitamente per l'utente) per permettere a chi sceglierà lo stesso vestito dopo, di ritrovarsi un abito lavato e stirato comme il faut. Il problema principale qui è che molto spesso si opta per il lavaggio a secco – essenziale per tessuti preziosi – che se fa risparmiare acqua, non lesina di certo sull'energia: tra steamer e solventi derivati dal petrolio – che non si possono certo definire green – il dispendio energico è notevole. Piattaforme come Rent the Runway, inoltre, propongono molto più spesso all'utente vestiti che devono essere lavati a secco, che, normalmente, per praticità, tenderemmo a non comprare altrimenti. In effetti chi scrive si ricorda ancora di quando, impossibilitata a decidere quali abiti comprare, vedeva la scelta nelle mani di una genitrice che decideva non in base al prezzo o all'oggettiva bellezza del prodotto, ma decifrando l'etichetta del lavaggio come il Codice Da Vinci, e, appena appariva l'icona che negava l'utilizzo delle lavatrici, riponeva il pezzo sullo scaffale, negandone con forza l'acquisto. Passati gli anni, si può affermare che, oltre a essere attenta al risparmio presso costose lavanderie, la signora era molto più sensibile alla sostenibilità di tanti servizi di affitto di abiti. L'alternativa migliore sarebbe, in questo caso, propendere per dei lavaggi a freddo, con dei detergenti delicati, e olio di gomito, prendendo spunto non dai genitori, ma dai nonni. Sarà forse utopico richiedere tanto alla modernità e a dei servizi che, pur nelle loro falle, sono le migliori alternative che abbiamo al momento al consumo eccessivo da fast-fashion, che ha portato oggi il 33% delle donne a considerare un capo "vecchio" dopo averlo indossato due volte? Certo, la strada degli abiti in affitto, è di certo quella giusta, e si può, e si deve fare di meglio. Un consiglio di quelli che non in molti hanno voglia di dare è che, escluse le occasioni speciali, nelle quali si ha bisogno di un abito adatto, che spesso non si compra per fare economia (e benedetti in questo caso tutti i servizi di affitto che salvano la vita e il portafoglio), basterebbe comprare un po' meno. E farlo un po' meglio.