Dieci anni sono sufficienti per cambiare? Chiedendolo alle donne che hanno dato forma alla decade che sta per concludersi, probabilmente la risposta sarà un convinto sì. E se in effetti si prova a ricordare com'era, il mondo della moda prima di loro, ci si rende conto che si fa una (notevole) fatica. Nel caso di Rihanna, si può parlare di una mutazione e di una traslazione in un mondo attorno al quale, come tutti i rich and famous, gravitava, essendone però l'oggetto – in questa o quell'occasione, indossando abiti di blasonati stilisti – ma mai soggetto attivo. Se nel 2009 i titoli di fine anno dei giornali sussurravano di una situazione finanziaria non proprio stabile della cantante di Barbados, ora il conto in banca, e Forbes, raccontano di una delle donne più ricche – meglio, la più ricca cantante al mondo – con un valore netto di 600 milioni di dollari. Certo, i tour e gli accordi promozionali a essi legati hanno aiutato – per The Diamonds world tour nel 2013 ha guadagnato 140 milioni, mentre per Anti del 2016, 25 sono legati solo alla sua promozione di Samsung – ma sono state le attività collaterali di RiRi ad aiutarla a fare cassetto. La sua collaborazione con LVMH, che l'ha aiutata a consolidare Fenty Beauty, e poi le sue iterazioni nell'underwear (Savage x Fenty) e la linea di ready-to-wear, Fenty, costituiscono la maggior parte delle sue fortune. E non è un caso che, in effetti, da anni, per il dispiacere dei fan, latiti un nuovo album, di cui pure si continua a parlare (l'ultimo, Anti, è del 2016). Rihanna è troppo impegnata a cambiare il mondo, e la percezione del corpo femminile, un completo intimo alla volta.


Un'opera di evangelizzazione della quale si è fatta gentilmente carico, creando in primis una linea di beauty che ha la maggiore varietà di nuance di fondotinta disponibili sul mercato – per far sentire belle donne di qualunque colore o etnia – e poi completi intimi sensuali, che non discriminano in base alla taglia. Una mossa semplice, ma intelligentissima: ci si immagina stuoli interi di addetti al marketing di brand con una maggiore anzianità, ora costretti alla rincorsa, e lasciati stupefatti a chiedersi come sia stato possibile non pensarci prima. Anche le donne oltre la 42 indossano i completi intimi, un dato del quale nessuno li aveva evidentemente mai informati. Nel frattempo, Rihanna è la prima donna nera a capo di un brand del gruppo LVMH e Fenty è il primo marchio a essere stato creato ex novo, e non acquistato. L'ultima volta che è successo, all'interno del conglomerato del lusso francese, era il 1987 e il nome era quello di Christian Lacroix.

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Non ha creato un marchio suo, ma ne ha rivoluzionato uno che esiste da sempre, Maria Grazia Chiuri. Dopo aver fatto coppia fissa con Pierpaolo Picciolisuo partner lavorativo da Valentino, che hanno diretto insieme sotto lo sguardo benevolo del fondatore – nel 2016 ha annunciato il suo arrivo alla corte di Dior, orfano di Raf Simons. Prima donna alla guida del marchio e seconda italiana (il primo era stato Gianfranco Ferrè) è stata anche la prima stilista italiana a ricevere l'onorificenza della Légion d'honneur, quest'estate – sempre sotto lo sguardo benevolo di Valentino Garavani, già premiato con la stessa medaglia diversi anni prima e presente alla cerimonia. Pragmatica, nata in una famiglia di chiara impronta matriarcale e cresciuta alla scuola delle cinque sorelle di Fendi, dove ha lavorato agli inizi, si è rimboccata le maniche e ha trasportato la femminilità degli Anni 50, decade di Christian Dior, negli Anni dieci, aggiornandone codici, senza stravolgerne i canoni, ma soprattutto, senza l'attitude spesso afflitta e pensosa dei suoi colleghi uomini, sempre molto corrucciati nell'immaginare un guardaroba – e un universo di riferimenti – in un corpo che geneticamente non abitano, ma su cui hanno spesso, in passato, sentito di aver molto da dire. L'hanno accusata, con sottile disprezzo, di essere "commerciale", il peggior insulto nel fashion system che conta ("La moda è un'azienda, io sono qui a fare questo lavoro per vendere, altrimenti chi me li darebbe i budget?" articola con brutale ed efficace praticità); di sfruttare le tematiche femministe per gli stessi scopi di sopra, quelli commerciali, come nel caso delle t-shirt con la scritta "We should all be feminists" ("Il fatturato di Dior, non è che cambi per una t-shirt. Chi crede una cosa del genere è molto in errore"), risponde, sottolineando a penna rossa. Con il marchio ha già sponsorizzato mostre dedicate al ruolo della donna, come quella organizzata a Milano Imprevisto - 1978 Arte e Femminismo, usando il potere evocativo di Dior per gettare luce su questioni raramente affrontate con la completezza necessaria, e registra fatturati che fanno venire il buonumore a Bernard Arnault, proprietario di LVMH.

Altra donna che sta cambiando il passo della maison che guida è Clare Waight Keller, direttrice creativa di Givenchy dal 2017 e prima donna nella storia a guidare il marchio francese. Un lungo cv che l'ha resa pronta, prontissima al ruolo, la benedizione del Conte Hubert de Givenchy, che non vedeva l'ora si ritornasse a parlare di couture, messa in pausa durante l'era di Riccardo Tisci, il Time l'ha inserita tra le 100 persone più influenti dell'anno. La missione alla quale è chiamata, ripulire il guardaroba dagli eccessi dello streetwear degli anni precedenti, e creare un immaginario femminile, ma comunque contemporaneo, è tra le più difficili. Lei ha però la stoffa, e la resistenza adatta al compito.

Ad aver impiegato molti di questi dieci anni nel realizzare un'estetica già divenuta di culto mentre era presente, figurarsi con la sua assenza, è stata invece Phoebe Philo, dal 2008 al 2018 a capo dell'ufficio stile di Céline. L'inglese ex direttrice creativa di Chloé, ha smontato e rimontato i canoni del guardaroba femminile, e abbattuto gli stereotipi classici dell'eleganza, inventandosene di nuovi, puntellati di cappotti blu over ispirati all'architettura brutalista, capelli raccolti in code basse, accompagnati da dolcevita in lane preziose, e sandali in pelo, che no, non sono stati un'invenzione di Alessandro Michele. Il concetto di "ugly fashion" moda anti-estetica, o forse "anti" un certo concetto di estetica, esistente ormai solo nel perimetro dei sogni e mai nella realtà, condito da toni toffee, pantaloni a palazzo – di cui è stata pioniera, quando ancora ci si strizzava nei jeans skinny – hanno convinto e trasformato in adepte migliaia di donne, poi denominate Philophiles. Tra loro, anche alcune designer la cui estetica è sempre stata pesantemente ed apertamente – vestirsi da capo a piedi Céline potrebbe essere un indizio degno di nota – da Phoebe, come le sorelle Olsen di The Row. Una moda di certo cerebrale, non adatta a tutti i palati, che rifuggiva quell'estetica di corpi abbronzati e scolpiti a suon di bisturi dei primi Dieci – che poi il clan Kardashian ha riportato in auge – e prediligeva l'affermazione di una personalità a cui non importava del trucco, o della sua mancanza. Sono già leggenda le campagne scattate da Juergen Teller con Daria Werbowy, o gli scatti a Joan Didion. Tutto ciò che è divenuto poi materia da feticcio, però, nulla ha a che fare con il volto o l'immagine di Phoebe, sempre rimasta volutamente dietro i riflettori, e forse divenuta tanto più ambita quanto più sfuggiva allo sguardo concupiscente del sistema e a quello adorante delle sue discepole. Maestra di una nuova corrente, che ha già allievi capaci di camminare sulle proprie gambe – il suo prediletto, Daniel Lee, è già acclamato come l'uomo del miracolo di Bottega Veneta – ha abdicato, con classe, quando il marchio da lei rivitalizzato era allo zenith del successo, per ragioni mai del tutto spiegate. Una ricerca di una dimensione privata di cui il lavoro eccessivo forse la privava – ha tre figli con suo marito, il gallerista Max Wilgram – un distacco da un mondo capace di travolgere, forse solo una pausa. Ad un anno e mezzo dal suo abbandono, nessuno sa molto di più, e non è mai stato annunciato quali siano i suoi piani per il futuro, o se ce ne sono. Nel frattempo, alla notizia della sua dipartita, e della nomina di Hedi Slimane a direttore creativo di Celine – a cui, come prima cosa, ha tolto l'accento, forse per renderlo più internazionale – le philophiles di sopra hanno creato su Instagram un account, Old Céline, che è un monumento funerario dell'era digitale, grande abbastanza per accoglierle tutte, quando arrivano a piangere con nostalgia e profluvio di vecchie foto di campagne e sfilate, la dipartita di una donna che ha preferito l'eleganza assoluta dell'assenza ai pericoli della sovraesposizione.

Cambiare la moda però, non è solo compito dei designer, ma anche di chi lavora dall'esterno, e, come un ariete, sfonda porte che prima non erano state mai varcate: è il caso di Leandra Medine, che nel 2010 pre-Instagram, aveva lanciato un blog al femminile divenuto piattaforma di discussione che teneva insieme l'alto (il femminismo in una sua versione possibile e contemporanea) e il basso (vibratori invisibili e spalline Anni 80). Il nome, The Man repeller, le era venuto andando a far shopping con un'amica da Topshop, e rendendosi conto che tutti i trend imperanti nel negozio, ed evidentemente nei desiderata delle donne, dai pantaloni harem in tonalità acide ai volumi bombastici degli Eighties, avrebbero fatto accapponare la pelle all'universo maschile. Dopo solo due giorni dalla pubblicazione dei primi pezzi, il blog era finito su siti come Refinery29 e The Cut, mettendo su un trampolino di lancio adatto la carriera della newyorchese che si può definire responsabile della pietra tombale sui blog e del lancio del new fashion journalism, insieme allo Style Rookie di Tavi Gevinson.

Il progetto è divenuto da subito occupazione principale di Leandra, che ha sapientemente mescolato, da editore indipendente, investimenti pubblicitari tradizionali, con post sponsorizzati in maniera intelligente e contenuti fruibili e interessanti: "la passione per i vestiti non è inversamente proporzionale all'intelligenza", ha dichiarato, nella recente intervista esclusiva a MarieClaire.it per una sua co-lab con Mango.

Last but not least, il monumento della resistenza (politica) è quello di Vivienne Westwood, che dagli Anni 70 pericolosamente vissuti con Malcolm McLaren, fianco a fianco con il punk, non ha mai smesso di dire alle donne, con i vestiti e con le opere, di fare un po' quello che volevano con il loro corpo – e però attenzione all'ambiente, il climate change è una cosa serissima, lei lo diceva da prima che gli altri trovassero un nome, al cataclisma che incombe sull'ambiente. Una lettera aperta dove, un mese fa, dichiarava il suo sostegno a Corbyn dei Labouristi – che, purtroppo non è servita ad evitare il disastro elettorale di qualche giorno fa – presente alle proteste di ottobre contro il fracking (trivellazione idraulica per estrarre gas) nel Lancashire, un documentario su di lei uscito a febbraio (Westwood. Punk, icon, activist), negli ultimi dieci anni Vivienne è sembrata ritrovare lo slancio attivista, dedicando il suo impegno a molteplici missioni (da quella ambientalista al legame con la Peta per la protezione degli animali, alla difesa strenua dei diritti umani e a quelli delle donne), insegnando al genere femminile il diritto di usare il guardaroba come arma politica e la voce come una spada, infischiandosene allegramente degli anni che passano e che nulla tolgono al suo spirito indomito e ribelle, come negli Anni 70. Chi nasce punk, d'altronde, troverà sempre una nuova battaglia da combattere.