Tra le arti minori che più di tutte danno vita a degli archetipi c’è sicuramente la moda. Quella che oggi è conosciuta come “industria dell’abbigliamento” in cui a parteciparvi sono in tanti, anzi tutti: dai consumatori, passando per i media e i social, fino agli stilisti. Ma fino a metà Ottocento quest’ultima figura è cosa rara. Una delle poche eccezioni, infatti, è il couturier Charles Frederick Worth (1825-1895), creatore della linea princesse, in cui il vestito femminile tradizionale di quel secolo viene rivisto nelle proporzioni e nella silhouette, diventando così più facile da indossare. Del resto anche le principesse iniziano a svolgere una vita più interessante, seppur restato all’interno dei loro castelli. Chi invece inizia realmente a intravedere un quotidiano più dinamico è la giovane statunitense priva di sangue blu ma colta, sportiva, indipendente. E questi tratti si riscontrano anche nel suo guardaroba, realizzato da magnifici sarti, il quale segna una vera e propria rivoluzione da quel momento in avanti, poiché va a introdurre indumenti molto simili a quelli che si trovano oggigiorno nei negozi, come la camicia e i pantaloni. Il tutto all’insegna della praticità, perché la pratica di abbellirsi con broccati e velluti non era più necessaria. Bisogna potersi muovere con facilità. E questa donna diventa l’archetipo per tutte le generazioni successive, arrivando nell’Europa degli anni Venti, con una giovane Coco Chanel in grado di capire che bustier e gonne rigide, ampie lunghe fino ai piedi sono troppo scomode per la vita moderna.

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Charles Dana Gibson, 1939

Niente Instagram per le giovani americane. E come è arrivata la notizia della loro esistenza nel Vecchio Continente? Grazie alle illustrazioni di Charles Dana Gibson (1867-1944), dando così loro l’appellativo di Gibson Girls, Ragazze Gibson. L’artista originario di Roxbury (Massachusetts) oltre che essere davvero un grande maestro del disegno è considerato un attento osservatore della società, quindi dei suoi costumi. E le sue fanciulle adottano un nuovo modo di vestire - pratico ma non sciatto - assecondandolo al loro stile di vita. L’attrice Dakota Fanning nella serie tv Netflix L’Alienista è un perfetto esempio di Gibson Girl: indossando una gonna a campana appena sotto la caviglia, una camicia con le maniche a gigot, a sbuffo, una giacca-bustier e una buona dose di impertinenza e intraprendenza. Una tipa giusta, insomma.

La silhouette degli abiti è comunque quella tipica del secolo della Guerra di Successione Americana. Non si discosta molto dalla figura a clessidra, che dona la famosa forma a S. Tuttavia per le Gibson Girl il valore da esaltare è la qualità dei materiali, i loro pesi; non gli ornamenti e le sottogonne inamidate le quali, seppure apprezzabili esteticamente e a livello di relazioni sociali (non si può dimenticare che prima della sua agognata emancipazione la donna doveva compiacere esclusivamente il marito, non se stessa, e un modo per farlo era certamente enfatizzare le forme), non sono funzionali per la prima donna dell’era moderna. Anche gli accessori subiscono un cambiamento, così come le acconciature. La Gibson Girl usava scegliere un piccolo cappello di paglia indossato davanti a uno chignon, al posto dei cappelli molto più grandi a tesa larga colmi fiori e/o penne di struzzo come invece facevano ancora la maggior parte delle donne dell’epoca.

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Camille Clifford, 1906

La moda è moda e qualcuno deve pur interpretarla. Se le illustrazioni e, oggi, la fotografia sono il mezzo attraverso il quale le amanti del bel vestire vedono le nuove proposte, stagione dopo stagione, le modelle sono le figure-tipo su cui basarsi per capire se un look può stare bene o no. E anche la leggenda delle Gibson vanta una Twiggy o una Gigi Hadid, de gustibus: l’attrice di origine belga Camille Clifford. Come Kate Moss è la musa del fotografo Mario Sorrenti, Clifford diventa presto la fonte d’ispirazione di Charles Gibson con la vittoria del concorso indetto da una rivista statunitense, al fine di scovare la perfetta incarnazione della “donna ideale”. Una curiosità: l’illustratore è patrocinatore dell’evento. Fu amore a prima vista, dicono. Assieme a lei, rappresentano il movimento Evelyn Nesbit (nella foto in apertura) e l’italiana Lina Cavalieri, icona del pittore Giovanni Boldini e, in tempi recentissimi, di Piero Fornasetti: è suo il viso scelto dal designer per le sue celebri serigrafie in ceramica.

Lina Cavalieri (1874-1944) italian opera singer, as Thais in opera "Thais" in Paris, photo by Bert from french paper "Le Theatre" october 1909pinterest
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Lina Cavalieri, 1909

A Camille, come tutte le Ragazze Gibson, piace indossare indumenti pratici. Oltre agli abiti meno ingombranti, contemporaneamente nasce la gonna-pantalone. Le donne incominciano a muoversi in bicicletta ed è impossibile farlo con abiti troppo voluminosi. Lo capisce subito Amelia Jenks Bloomer, sarta all’avanguardia, creatrice di una propria interpretazione dei pantaloni alla turca, raccolti alla caviglia da un merletto e indossati sotto una gonna lunga fine al polpaccio. Skirt a parte, Yves Saint Laurent li adotta in quasi tutte le collezioni. Ma è nello stesso periodo che prende forma un capo-chiave del guardaroba femminile che anche le millennials posso vantare di possedere nei loro armadi, in una versione più evoluta: la camicia. Nel 1890 viene creata una blusa per la donna ispirata al modello classico maschile, con un colletto ripiegato - come quello che Karl Lagerfeld indossava ogni giorno - e una chiusura frontale a bottoni. Tornano le maniche a gigot, anche se meno ingombranti di quelle risalenti alla metà del secolo. I polsini erano doppi rigirati. Sotto una giacca ampia, rigorosamente scura, e a un’ampia gonna, la camicia diventa parte dell’uniforme da lavoro delle donne. Ed è grazie a loro, poi a Coco, Schiaparelli, fino a Miuccia Prada oggi, che si deve l’emancipazione femminile. Anche nella moda.

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Evelyn Nesbit, 1930