"Cosa resterà di questi Anni 80?" si chiedeva Raf nel 1989, esprimendo già nelle note e nella voce, una certa malinconica nostalgia, una saudade in early release. A pensarci adesso, se il cantante pugliese può dirsi tutto sommato soddisfatto – il ciuffo alla Brian Ferry è un lontano ricordo, ma lo zigomo glorioso è ancora lì, svettante – bisogna ammettere che le sue preoccupazioni di veder svanire nelle nebbie del passato gli "anni rampanti dei miti sorridenti da windsurf"erano totalmente ingiustificate. Loggandosi nel proprio account Netflix, in effetti, sorge il dubbio di essere delle inconsapevoli comparse, catapultate in un reboot di Ritorno al futuro, novelli Marty McFly senza un Doc a farci da Virgilio dantesco, nei gironi infernali di serie tv e documentari e film che sono esteticamente congelati nella decade della caduta del Muro di Berlino, e degli ultimi album meritevoli degli U2.


Come sarà stato in fondo possibile? Eppure chi ci ha preceduto – e ha avuto modo di esperire in prima persona gli anni delle giacche doppiopetto come uniforme identitaria di tutti i cumenda di Milano e provincia, delle cinture Charro e dei Timberland come necessari viatici per guadagnare l'ingresso del Burghy in San Babila insieme agli altri paninari – lo aveva promesso solennemente, solo qualche anno dopo, che non sarebbe mai più accaduto. Riguardando le foto del liceo, avevano assunto la stessa espressione affranta del Dr. Fauci, immunologo della casa Bianca e nuova emoticon accettata a livello universale del facepalm, lo stesso nel quale si è esibito in mondovisione di fronte all'eclatante incompetenza scientifica del suo presidente. Mai più spalline imbottite come fossero protuberanze dell'ego, mai più piumini rosso shocking con la pelle verde dello smog di Milano, lacca Cielo alto, che il cielo ti sia lieve, perché non troverai più posto tra gli scaffali dei nostri bagni. E poi, chissà. Quell'infelice decade, di un ottimismo che poi, a posteriori, si sarebbe rivelato primo di senso, gonfiato come le finanze pubbliche, un palloncino di compleanno fatto scoppiare a tradimento dalla puntuta guerriglia giovanile degli Anni 90, è tornata a manifestarsi sulle passerelle prima, e sugli schermi televisivi poi. Il primo esperimento seriale a tema – Glow, saga wrestler/femminista iniziata come la decade a cui era ispirata, tra molte promesse e finita un po' alla bell'e meglio – aveva suscitato sorrisi carichi di tenerezza. Ci eravamo convinte di poterci permettere una sbirciatina nel passato, un assaggio di trash, senza che la cosa intaccasse in alcun modo la reputazione che ci eravamo costruiti a colpi di blazer destrutturati e abiti dall'estetica svedese con volumi a uovo. Una pia illusione prontamente sconfessata dalla programmazione del gigante californiano.

instagramView full post on Instagram

Il guilty pleasure, quell'estetica kitsch q.b. da riservare alle mura di casa o alla palestra, magari sfoggiando un po' timidamente i leggings bianchi con glitter indossati da Jennifer Lopez, sentendosi così al riparo da critiche di colleghe maitre à penser del razionalismo applicato al guardaroba, ha trovato in quella iniziale concessione benevola, un pertugio nel quale infilarsi. L'implosione di questa contraddizione – vestirsi Anni 80 convinti di passare inosservati – è quindi arrivata con Stranger Things, chiaramente ispirato ai Goonies e a quell'estetica rubata allo Steven Spielberg di E.T. con i siparietti di una comicità surreale presi in prestito da Super Vicky: che male poteva fare, in fondo, indossare una salopette in jeans come Eleven? Nessuno ha obiettato che l'abbigliamento era socialmente accettabile perché Eleven non era solo il numero seriale affidato in laboratorio alla talentuosa bambina, ma anche la sua età quando si è iniziata a filmare la serie. Uno sdoganamento dopo l'altro, abbiamo inaugurato così una nuova età della Restaurazione, nella quale scrunchies e mom jeans, e pure le camicie a stampe come se fossimo le nuove colleghe di scrivania di Sonny Crockett a Miami, hanno riguadagnato il nostro favore, e un posto nei nostri armadi, già così stanchi di questi Anni 10 un po' troppo riflessivi. A riguardarlo adesso, sedata temporaneamente l'adrenalina, prima dell'arrivo della nuova stagione, a voler essere onesti con se stessi, si ammette che in fondo, il meglio vestito è sempre stato quello che optava prosaicamente per la semi-nudità, l'iracondo Billy che dettava legge e stile nel perimetro della piscina comunale di Hawkins, con i suoi pantaloncini rossi e il pettorale guizzante, requisito minimo per assolvere al suo ruolo di bagnino.

Ci siamo così ritrovati catapultati in un Sottosopra modaiolo, dove persino serie ambientate in uno spazio-tempo mai dichiaratamente esplicitato, finivano per flirtare con i gloriosi Anni 80. Maeve di Sex Education può anche far risuonare in cuffia – Air Pods? Anatema! – le Bikini Kills, la criptonite di Courtney Love e delle sue Hole, ma poi si presenta in classe con lo stesso aplomb con il quale Debbie Harry sfoggiava minigonne nere e biker jacket nei club di New York ai tempi dei suoi Blondie. Si soprassiede per misericordia sui piumini bombati bicolor di Otis - però, dai, non sono mica male, hanno quelle vibrazioni streetwear – e sul denim on denim di Aimee, ma seppure la serie è in maniera implicita girata nei primi Anni 90, di certo non nega il patrimonio genetico opinabile della decade precedente.

E qui, di conseguenza, ci siamo ricascati. Quando non basta la retromania, quando la nostalgia si fa troppo cocente, quando si guardano per l'ennesima volta le repliche di Dallas, sussultando tra l'onta e un sottile perverso piacere di fronte alle malefatte architettate dal luciferino J.R, augurandosi, vi, prego, "Make Netflix 80's Again", ecco che qualcosa va sorprendentemente storto, e complice una pandemia globale, ci si ritrova chiuse in casa e incollate allo schermo di fronte alla nuova frontiera del trash, Tiger King.

Gli Anni 80 sono tornati, e vivono tra noi. E poco importa che non sia esattamente il glamour eccessivo che si respirava come profumo nell'aria petrolifera di Dallas, quanto il kitsch assoluto e fetente dei mullet e dei cappotti sequined di eclettici proprietari di zoo dispersi nel mezzo dell'Oklahoma: eravamo disposti a qualche compromesso, pur di riportare tra noi quella decade disgraziata. A tenerci incollati allo schermo arriva così un documentario girato in 5 anni di tempo, nell'anno di grazia 2015, e che però è impregnato fino al collo di total look animalier, quelli dell'algida Carole Baskin, la dimostrazione in carne e ossa che si può essere contemporaneamente lo yin ( strenuo difensore dei diritti degli animali) e lo yang (proprietaria di un santuario con tigri ingabbiate in spazi angusti) e atteggiarsi comunque a Madre Teresa dei felini. Tentate dal merchandising a tema di Joe Exotic, ma assalite dal terrore di poter essere incriminate dal tribunale del buon gusto – e finire conseguentemente a condividere la cella con Joseph Maldonado-Passage –rimaniamo ancora attanagliate dall'indecisione. Ma questo vortice di paillettes e lustrini ed ego sproporzionati nel quali ci siamo volontariamente infilate, non sarà forse un po' troppo? Odiando ammettere che i nostri genitori, in fondo, avevano ragione, chiudiamo Netflix, e apriamo Instagram, sintonizzandoci giusto in tempo per il dj set del weekend di Jo Squillo.

Rassicurandoci, e sospirando di sollievo: sì, ci sentiremmo di rispondere a Raf, qualcosa di quegli "anni allegri e depressi di follia e lucidità", è rimasto. Forse non recupereremmo il mullet e gli occhiali a mascherina specchiati – che comunque teniamo in cantina per gli inverni a Cortina – ma, proprio come intonava lui "le radio – oggi evolutesi in Instagram tv con diretta streaming – cantano ancora una verità dentro una bugia". E, oggi come allora, attanagliati dalle insicurezze del domani, siamo disposti a barattare il buongusto con abiti di paillettes, cage sandal con tacco a spillo, e una momentanea iniezione di allegria. Domani, chissà.