«Ieri, durante la sfilata di Armani, sui social era tutto un #TB di post e stories», mi scrive Manuela Ravasio, la collega che dirige il sito di Marie Claire (per i boomer come me, #TB sta per “throwback”, ovvero foto e frasi di natura un po’ nostalgica, per capirsi). «Anche i target più giovani sono così affascinati dal mondo Armani», dice il suo messaggio. Ora: credo che, oltre la serata su La7 inaugurata da Otto e mezzo con il coming out di Lilli Gruber che confessa di vestirsi Armani (non ce n’eravamo accorti, grazie!), il sindaco di Milano Beppe Sala che ne tesse le lodi in modalità shakespeariana, il professor Galli dell'ospedale Sacco che rivela quanto lo stilista sostenga da tempo la ricerca medica e perfino la suadente voce di Favino che illustra il sistema valoriale di King George nel documentario pre-sfilata Pensieri senza tempo, sia questo il più grande riconoscimento che Giorgio Armani possa ricevere. È amato, conosciuto e apprezzato da oltre tre generazioni di veri fan che stravedono per il suo stile che oltrepassa la cruna infuocata del tempo per diventare un nome che si sublima in aggettivo.

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Courtesy Giorgio Armani

Diciamo armaniano come felliniano o picassiano a indicare un’estetica precisa e definita. Che nel suo caso si aggiorna continuamente senza rinunciare al suo dna. Anche la scelta di scegliere il medium più democratico di tutti, la televisione e non il computer (ché mica in Italia tutti ce l’hanno, il computer: ok, forse sono anche quelli che non potranno permettersi un abito di Armani autentico, ma perché non offrire loro un sogno che domani si tradurrà nell'acquisto di una felpa di Emporio, di un paio di jeans con l'aquilotto, di una t-shirt col logo?). Così la consacrazione maggiore non è l’elenco dei suoi mille e mille successi o il dato che "Armani" sia tra i primi dieci nomi celebri per risonanza mondiale dopo Coca-Cola, McDonald's, Apple, Google, ecc. ecc, ma la perenne modernità che si è imposto come autodisciplina dagli inizi. Modernità che significa abiti veri per persone vere presentati in show mai stravaganti (i capi in passerella si ritrovano nelle boutique), e nel seguire le evoluzioni dei tempi rimanendo coerente a ciò che dice e pensa: una dote da cui molti politici dovrebbero trarre lezione. Di conseguenza, l’attitudine all’escapismo che ha attraversato tutte queste sfilate, per lui si traduce in un corteo di tailleur pantaloni delicati come un sospiro o in completi maschili che competono, per dolcezza di materiali e di forme, con quelli femminili. Come sempre si procede per sottrazione, e l’impronta è talmente sobria, parca ed essenziale che è un equilibrio perfetto di rigore ed autenticità. Un sogno e un segno rispettosi dei tempi: il richiamo alla bellezza è sussurrato nei colori da minerali preziosi, come il verde giada o il turchese spento, e perfino nei ricami che illuminano gli abiti da sera. C’è la prosecuzione di un discorso estetico con un timbro che lega passato e presente e fa respirare boomer e teen-ager. Ogni nuova collezione aggiunge termini a un vocabolario in espansione, reitera un senso di eleganza in cui al centro è la persona. Armani non esce a raccogliere gli applausi registrati di un pubblico che in sala non c’è, ma consegna a un gatto nero sulla giacca - se Karl aveva Choupette, lui aveva Angel, scomparso da poco - un’idea di umanità ed empatia.

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Courtesy Armani

“Empatia” è una parola che sta molto a cuore anche a Pierpaolo Piccioli, fresco di vittoria come migliore stilista 2020 per l’abbigliamento assegnato dal CFDA (il Council of Fashion Designers of America), direttore creativo di Valentino. È tornato a sfilare in Italia dopo trent’anni di presentazioni parigine: i francesi non ce lo perdonano, ma a noi non interessa. Una collezione che riannoda l’esistenza di oggi a una radice comune, quella della Natura: nell'ex fonderia Macchi, situata nella periferia più brutale e brutalista della città, sono arrivati fiori provenienti da vari paesi del mondo, come in un Eden immaginario, orchestrati in giganteschi bouquet da Satoshi Kawamoto. Piante vive, come dal vivo è la musica di Labrinth, artista che ha curato la soundtrack della serie Euphoria. Una collezione che chiede uno stato d’emergenza del ritorno alla speranza con abiti apparentemente semplici, ma in realtà frutto di tecniche d’eccezione: le camicie in pizzo di paglia, i ricami ajour che percorrono camicie e pantaloni da uomo (anzi, shorts: per gli uomini, la divisa prediletta da tutti i marchi), le lavorazioni invisibili di cuciture per pepli dai colori smaglianti, vibranti di ottimismo. I tessuti volano nell’aria vibrano come le note di Labrinth: «Il romanticismo è prima di tutto uno sguardo sulle cose e sulla vita, non un insieme di regole», afferma una nota per la stampa. Anche qui un processo di semplificazione si amplia a trasformarsi in elementi quasi basici da poter combinare liberamente: la collezione è un insieme di moduli che possono essere adattati individualmente. Individualità che si ritrova in un casting di volti nuovi e differenti, tutte di bellezza assoluta, mai convenzionale.

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Daniele Oberrauch
Valentino SS 21

Un metodo che applica con humour anche la linea MM6 (il numero contrassegna quella, tra le collezioni del brand, destinata a un pubblico vasto, che approccia ai codici femminili in modo originale attraverso tagli e stampe) di Maison Margiela: i background usati nelle call via Zoom sono pannelli quadrati in parte cuciti sul retro delle t-shirt; sciarpe di satin stampate rimpiazzano la parte posteriore di camicie e gilet per creare scene pittoriche fluttuanti: cieli coperti di nuvole, la storica biblioteca della maison; il rivestimento in calicò bianco della sedia tipica di un café parigino diventa un miniabito. Perfino l’espressione «business on top, party on the bottom» (usata per descrivere un look che prevede un abbigliamento elegante per la parte superiore del corpo, comodo o svestito per la parte inferiore) serve da ironica ispirazione per videoconferenze da casa.

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Courtesy of Press Office//LAUNCHMETRICS SPOTLIGHT
Maison Martin Margiela MM6 SS 21

Anche gli spumosi abiti di Tomo Koizumi per Pucci, gonfi e impalpabili come nuvole d’organza colorata creano un dialogo positivo con il vestire come forma di consolazione. La lezione ribadita da questa obliqua, bizzarra ma stimolante Fashion Week milanese è che l’ottimismo è un diritto ma forse anche un dovere. Sicuramente è una scelta da esercitare anche attraverso l’apparenza. Per insegnarci che non solo i malanni, ma anche gli stati d’animo e le emozioni sono contagiosi. E che la fiducia nel futuro è una materia di studio. Anche i più renitenti, come chi scrive, devono studiarla per vivere meglio. Magari comprandosi un capo che, anche per pochi secondi, faccia sorgere un sorriso sulle labbra corrucciate sotto la mascherina.

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Courtesy
Emilio Pucci SS 21