Se il cinema è capace di regalare mondi paralleli nei quali è piacevole immergersi per la durata di una pellicola, succede spesso anche, silenziosamente, per l'impatto del guardaroba, capace di dare spessore e strati al personaggio, costruirne la personalità tanto quanto una buona sceneggiatura. Un cappotto, quindi, può essere emblematico quanto delle battute taglienti: dalle parti di Hollywood – ma anche a Cinecittà – lo hanno sempre saputo come dimostrano alcune delle pellicole più significative della storia del grande schermo. Un esempio è quello di Gangster Story, pellicola del 1967, che racconta la storia – vera, e come nelle migliori storie vere, al limite dell'incredibile – di Bonnie & Clyde, coppia di ladri che derubano banche nel periodo della Grande Depressione Americana. Un'attività che diviene via via più violenta, alla quale Clyde Barrow inizia Bonnie Parker, quando tenta di rubare l'auto di sua madre. Annoiata ragazza del sud che si immagina una vita lontano dalla banalità alla quale è destinata, Bonnie si decide a seguirlo, spostandosi tra l'Oklahoma e il Texas alla ricerca di brivido e banche da rapinare.

Il guardaroba di Faye Dunaway si trasforma di conseguenza, via via, che la posta in gioco diviene più alta, le scariche di adrenalina più frequenti ma ormai divenute abituali, in una vita da ricercati in diversi stati, passando da chemisier in tonalità pastello un po' scialbi, da rassegnata cameriera del Midwest, a completi e capispalla dal taglio maschile, perfetti per un colloquio di lavoro nella metropoli, o per presentarsi all'appuntamento con il crimine, vestita di tutto punto. La giacca a maxicheck bianchi e neri, stretta in vita da una cintura, portata con gonna abbinata, è significativa della metamorfosi di Bonnie, che sarà poi descritta dalla storia – quella vera – come una figura pressoché leggendaria, sia per pericolosità che per l'accuratezza con la quale cesella la sua immagine. Quando la vicenda arriverà al suo (tragico) epilogo, i titoli dei giornali a lei riservati la descriveranno come "moderna tigre, dalla pistola veloce, sempre con il sigaro in bocca" .

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E parlando di killer senza scrupoli, quelle più memorabili arrivano quasi sempre dalla mente di Quentin Tarantino, feticista dei western e di certe pellicole definite forse troppo presto "di serie B", e che omaggia continuamente in un loop di citazionismi adatto a veri nerd cinematografici. L'assassina Elle Driver, anche conosciuta come il "serpente montano della California", è però frutto della sua fervida immaginazione: Daryl Hannah, chioma bionda e un occhio mancante, coperto da una benda piratesca, fa parte della squadra delle Vipere mortali, nella quale, come nel caso della Bonnie Parker di Gangster Story, è finita per caso. Ex agente dell'Interpol, si è ritrovata attratta dal fascino magnetico dell'uomo a cui stava dando la caccia, Bill "l'incantatore di serpenti", ritrovandosi presto a cambiare maglia, ed entrare nel team disfunzionale il cui unico obiettivo pare mettere fine alla vita di Beatrix – la Uma Thurman armata di tutina gialla e desiderio di vendetta. E proprio quando Beatrix si trova in coma in ospedale, Elle si presenta con il desiderio di iniettarle del veleno, e compiere la sua missione: ci arriva con la sua benda, nera, e un trench bianco i cui dettagli sono disegnati da un tocco che sembra quello di una matita, come nel caso della cinta. Rilassata, e perfettamente" dressed to kill," con un abbigliamento che poi, in una camera d'ospedale, abbandonerà per indossare un camice bianco, mocassini ton sur ton e una benda abbinata, bianca con la croce rossa – perché nessun dettaglio può essere lasciato al caso – il suo fischiettio è inquietante nella sua serenità, quella di una donna che si approccia ad un omicidio con la rilassatezza con la quale molte altre vanno dal parrucchiere. Gli assassini saranno anche criminali, ma questo non vuol dire che non possono vestirsi in maniera professionale, sembra suggerire con una certa ironia Tarantino.

A subire una trasformazione – psicologica e anche vestimentaria – è invece Séverine, giovane moglie di un aitante medico: la relazione affronta un periodo di stanca, e la giovane e affascinante Catherine Deneuve, come la Faye Dunaway di Gangster story, è alla ricerca del brivido. Finisce così per prostituirsi in una signorile casa d'appuntamenti, la cui maitresse, Madame Anaïs, le dona il nome di Belle de jour, titolo anche del film a firma di Luis Buñuel del 1967. Se, dopo l'esperienza che lei stessa ha cercato, Séverine fugge terrorizzata, quando fa ritorno alla casa d'appuntamenti, cercando nel sesso occasionale una sorta di psicanalisi freudiana alle sue insofferenze, indossa un cappotto nero in vinile: da vittima dei tempi tumultuosi, e di un ruolo che forse non le appartiene, Séverine diviene dominatrice, con un cappotto divenuto iconico e poi divenuto di proprietà della stessa Deneuve, che l'ha messo all'asta qualche anno fa. A disegnare il suo guardaroba, un doppio armadio che annovera i pezzi da giovane moglie devota – vestiti da educanda neri con collo tondo, sahariane avana, completi da tennis di un bianco immacolato – e quelli da donna dedita alla ricerca del piacere – vestiti rossi, a stampe forti, e appunto il cappotto in vinile – è Yves Saint Laurent ( e a guardare l'ultima collezione di Vaccarello per il brand, tra pantaloni in vinile e intimo in vista, è possibile scorgere ancora l'ombra lunga del mito di Séverine). Sul confine pericoloso con l'infedeltà coniugale – un confine che, in questo caso, non si sorpassa – è il cappotto rosso di Su Li-zhen, protagonista e gran cerimoniera d'eleganza in In the mood for love, capolavoro di Wong Kar-wai che proprio quest'anno spegne le 20 candeline. Il destino e la geografia condominiale l'avvicinano a Chow-mo Wan, caporedattore di un giornale e suo dirimpettaio in un palazzo dove si riunisce tutta la comunità di abitanti di Shanghai in esilio a Hong Kong, negli anni 60. I due scoprono presto di condividere un poco lusinghiero dettaglio: i loro rispettivi coniugi sono infatti amanti. Avvicinati da questa comune scoperta, e poi dall'attrazione, i due continueranno a cercarsi e allontanarsi per anni, senza mai varcare il limite del consentito. Quando Su Li-zhen, una sublime Maggie Cheung che per tutto il film illumina le stanze modeste del condominio o dei bar con i suoi qi-pao – floreali, a righe, a micro-check – sta per avvicinarsi alla porta di Chow -mo Wan, e cedere al desiderio, indossa un cappotto rosso, un trench leggero che però rimane scolpito nella mente dello spettatore, anche per l'abbinata con l'abito tradizionale bianco con stampa floreale nera. Si ferma un attimo prima, l'inquadratura stacca altrove, mentre la si sente dire: "Non saremo come loro. Ci vediamo domani"

E una storia di seduzione è anche quella, famosissima de Il laureato di Mike Nichols, dove Dustin Hoffman, giovane di belle speranze appena tornato a casa dopo aver concluso il college, si ritrova invischiato in una relazione con una donna ben più grande di lui, moglie del socio in affari di suo padre. Il primo tentativo di seduzione avviene alla festa per il ritorno di Ben – il personaggio interpretato da Hoffman – anche prima occasione dove i due si vedono. Con la scusa di farsi riaccompagnare a casa, la signora Robinson – poi anche titolo di una canzone di Simon & Garfunkel pensata per il film, e termine con il quale si indicavano le primigenie "cougar"– tenta di sedurlo. Mentre lo fa indossa un cappotto leopardato, che è un riferimento, seppur didascalico, al suo ruolo di donna consapevole del suo potere seduttivo, e per nulla impaurita dall'idea della prima mossa.

E se si parla di pellicce – dall'allure vintage – il film recente che viene in mente a molte è uno dei più fortunati e "iconografici" immaginati da Wes Anderson, quello de I Tenenbaum. Margot – alias una Gwyneth Paltrow in lob piatto e sigarette Sweet Afton continuamente tra le dita – è figlia adottiva dell'avvocato Royal Tenenbaum, da molti anni lontana da una famiglia con la quale non ha più rapporti, sposata – infelicemente – con un neurologo, i sogni di scrivere opere teatrali lasciati in un cassetto. Quando il padre richiama la prole a casa, però, ad andarla a prendere è il fratellastro Richie, ex asso del tennis, da sempre segretamente innamorato di lei. Quando il Richie – Luke Wilson (direttamente ispirato ai tennisti degli eighties, uno su tutti Bjorn Borg e quindi dotato di capelli lunghi e fascia in spugna sulla fronte, sempre pronto ad un Ace sulla terra rossa) la vede arrivare, scendendo da un pullman, Margot indossa una lunghissima pelliccia, che però non riesce a nascondere le sue nevrosi e la sua fragilità.

Gli italiani però in questa cornice non sono da meno: per il suo Deserto Rosso, dramma la cui protagonista è Monica Vitti, Michelangelo Antonioni, il maestro dell'incomunicabilità, usa la sua "teoria del colore". La Ravenna mai così grigia, meccanizzata, manchevole di umanità, è specchio riflesso della depressione di Giuliana (la Monica Vitti, qui moglie di un industriale assente), antenna al femminile che capta già le prime avvisaglie di un mondo che, alla ricerca spasmodica della tecnologia e dello sviluppo, sta perdendo significato. E per il suo primo film a colori, infatti, Antonioni inserisce in questo sfondo tetro, proprio il cappotto in panno verde di Giuliana come unico punto di luce, e forse, unica speranza, verso un'umanità ancora capace di connettersi a se stessa, interrogarsi, e inevitabilmente, soffrire.

Infine, il trench tra i più noti della cinematografia femminile, è quello di Holly GolightlyAudrey Hepburn in Colazione da Tiffany, che segna anche la parte finale della pellicola, basata sul libro di Truman Capote. Alla ricerca del suo compagno felino, chiamato per velleità Gatto, e che lei stessa ha lasciato andare in un tentativo di dimostrare a Paul – colpevole di amarla – come l'amore sia una gabbia nella quale non vuole essere rinchiusa, Holly si dispera per il suo gesto. Lo fa in un trench Aquascutum, che dimostra di essere perfetto anche sotto l'acquazzone, così come l'ovale di Audrey, anch'esso, evidentemente rain-proof. Garantendo il perfetto happy ending, privo di sbavature, anche nel trucco.