Boicottaggio ai giganti dell'abbigliamento, l'abbandono del fast fashion, la promessa esplosione del mercato del second hand: nel grande laboratorio di sperimentazione che è la Cina, gli avvenimenti si succedono in maniera rapida, e spesso scontrandosi con il mondo esterno al Celeste impero, e con i diritti umani. Il superamento della pandemia – la Cina è stato l'unico paese a registrare un seppur minimo aumento del PIL nell'annus horribilis 2020, un +2,3% grazie a delle strettissime misure di lockdown – ha addirittura accelerato un processo, quello del superamento del mercato americano e la consacrazione a più grande mercato mondiale. Non c'era un se, insomma, quanto un quando: e quel termine, secondo il report annuale del Centre for Economics and Business Research, pubblicato lo scorso dicembre, è stato spostato al 2028, due anni prima rispetto alle precedenti previsioni. La rivalità tra Washington e Pechino vedrebbe gli esiti tendere a favore della seconda, dopo che New York è stata superata, secondo una recente classifica di Forbes, proprio da Pechino, in quanto a numero di miliardari (99 della grande Mela, capeggiati dall'ex sindaco e uomo delle comunicazioni Michael Bloomberg, contro i 100 di Pechino, cresciuti in un solo anno di un terzo, guidati dal fondatore di TikTok Zhang Yiming). La crescita esponenziale e costante di un paese con 1, 4 miliardi di abitanti non è paragonabile o raggiungibile al momento da nessun'altra economia occidentale.

Un record che però è raggiunto con non poche contraddizioni, non da ultima quella che ha visto protagoniste grandi aziende come H&M, Nike, Adidas, Burberry e New Balance che, dopo anni, hanno preso posizione contro il cotone proveniente dalla provincia dello Xinjiang. Non proprio una questione di lana caprina, se si considera che quell'area "lavorano" gli Uiguri, minoranza etnica cinese di origine turcomanna e di religione islamica. Una cultura indipendente che la potenza cinese cerca da anni di assimilare a usi e costumi rispettosi dell'ideologia del Partito, attraverso lavoro forzato e veri e propri campi di prigionia, dal governo definiti molto più blandamente come "scuole". Una "repressione sistematica, un genocidio", secondo l'eurodeputato socialista francese Raphaël Glucksmann che si è intestato la battaglia di quello che è un crimine contro l'umanità, in seno all'Unione Europea. Dopo aver denunciato come i brand traggano profitto dalla manodopera a basso costo, e del lavoro forzato proprio degli Uiguri, diversi marchi hanno deciso di aderire alle proposte della ONG Better cotton initative (BCI) smettendo di comprare il cotone da quella regione. Una posizione politica che ha causato, ovviamente, un'alzata di scudi nel paese, dove si è assistito velocemente a un boicottaggio dei brand colpevoli dell'offesa. Non solo dai social media cinesi sono immediatamente spariti i prodotti dei marchi in questione, ma molti consumatori hanno promesso sempiterno boicottaggio, riunendosi sotto la sigla "sosteniamo il cotone dello Xinjang": un'iniziativa alla quale si sono uniti, non senza secondi fini, una trentina di brand nazionali, ottenendo, secondo il Financial Times, degli importanti rialzi in borsa (+19% Li Ning, + 14% Anta). In chiusura dell'ultima China Fashion Week (tenutasi tra il 24 e il 31 marzo) la stilista Zhou Li, ad esempio, è salita sul palco a ritirare gli applausi portando con sé un per nulla casuale bouquet di cotone, secondo la notizia riportata dall'agenzia Reuters, e due star della tv cinese, Wang Yibo e Tan Songyun hanno subito annunciato la fine della collaborazione con Nike, dei quali erano brand ambassador. Una battaglia che era già iniziata in realtà il 22 marzo scorso, quando, di comune accordo, Unione Europea, Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada hanno imposto sanzioni a diversi funzionari cinesi, accusati di violazione dei diritti umani nello Xinjang (le prime vere e proprie sanzioni contro la Cina dai tempi di Tienanmen). Una mossa decisa alla quale il paese ha risposto a sua volta sanzionando 10 parlamentari europei – tra cui proprio Glucksmann – e 4 entità della UE, che, secondo i comunicati ufficiali "danneggiano gravemente la sovranità e gli interessi della Cina e diffondono maliziosamente menzogne e disinformazione".

people walk past a uniqlo store in beijing on april 5, 2021 photo by nicolas asfouri  afp photo by nicolas asfouriafp via getty imagespinterest
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Il quesito amletico di fronte al quale molti brand divenuti globali sono posti è tra il sostegno dai diritti umani – con la conseguente e letale cancellazione dal mercato cinese – e il perseguimento di un profitto – e difatti Inditex ha cancellato dal suo sito una dichiarazione nella quale annunciava di voler fare a meno del cotone dello Xinjang, inimicandosi in questo caso tutti gli attivisti che da anni lottano contro quello che gli Stati Uniti hanno definito ufficialmente "genocidio", tanto che è attivo un divieto di importazione emanato direttamente da Washington. Spostare semplicemente l'approvvigionamento di cotone in un altro paese, evitando il problema? Quasi impossibile, secondo un recente pezzo del New York Times, "H&M and other brands face backlash from chinese consumers", considerato il fatto che la Cina è responsabile dell'esportazione di quasi metà del cotone mondiale. La catena di produzione, dal prodotto appena raccolto a quello lavorato, è volutamente opaca, e pur evitando di comprare cotone direttamente dallo Xinjang, spostandosi in altri paesi vicini, dal Vietnam alla Cambogia, il risultato è similare, visto che la Cina esporta il cotone allo stato grezzo in 14 paesi, compresi Vietnam, India, Pakistan e Bangladesh, mentre il filo del cotone è esportato in 190 paesi, secondo l'International Cotton Advisory Committee. H&M ha rilasciato una dichiarazione, nella quale sostiene che l'azienda "sta lavorando alacremente con i nostri colleghi in Cina, per fare tutto quello che è nelle nostre possibilità, nella gestione delle sfide attuali". Parole che non contengono nessun riferimento allo Xinjang, ormai pietra dello scandalo, e che non sembrano aver soddisfatto nessuno, visto che le critiche sui social cinesi rimangono molto forti. "Per voi il mercato cinese sarà importante, ma per la Cina non siete altrettanto necessari", commentava un utente. Un problema che però, non sembra esser legato soltanto alle polemiche politiche, ma anche a questioni di natura diversa. Dopo che a gennaio Inditex ha chiuso tutti gli store fisici di Bershka, Pull & Bear e Stradivarius in Cina, questo mese, secondo quanto riportato da WWD, toccherà a Gap abbandonare il paese, con il suo brand Old Navy. Forever 21 era già emigrato nel 2019, New Look nel 2018. Zara ha sul suolo nazionale 141 store, poca cosa rispetto alle migliaia di punti vendita di brand locali come Peacebird e Metersbonwe, mentre H&M progetta di lanciare i suoi brand Arket & Other Stories, anche se i ricavi nello scorso anno sono diminuiti del 17%. La motivazione? Nella mancata attenzione e modifica rispetto alle diverse taglie, con le corporature asiatiche generalmente più minute rispetto a quelle europee: a dimostrazione del teorema, c'è invece il successo di Uniqlo – che sempre fast fashion produce – che, essendo giapponese di nascita, non deve far sforzi in materia di modifica delle taglie. E di fronte al fast-fashion occidentale che perde mordente in un mercato nel quale è fondamentale lavorare con team locali, chi invece sta guadagnando terreno, in maniera inaspettata, è il second-hand: il sito The fashion Law, infatti, citando una ricerca realizzata dall'University of International Business and Economics insieme al portale del second hand di lusso Isheyipai, parla di percentuali attuali abbastanza risicate. L'abbigliamento pre-loved, in Cina, vale attualmente il 5% delle vendite del lusso totali, contro il 28% del Giappone e il 31% degli Stati Uniti. Numeri che però sono destinati a crescere tenendo conto del fatto che il 52% dei clienti di second-hand nel paese hanno meno di 30 anni. Un dato che, secondo una ricerca di Bain, potrebbe spingerne la rilevanza, considerato che il paese rappresenterà entro il 2025 la metà delle vendite del mercato del lusso, i cui prodotti sono utilizzati dai consumatori cinesi per un periodo che va da 1 a 3 anni. Il valore del mercato del pre-loved in senso ampio – non solo vestiti quindi, ma anche oggetti, elettrodomestici e complementi d'arredo – dovrebbe aver oltrepassato i mille miliardi di yuan già nel 2020, secondo il China Center for Internet Economy Research. Un mercato tentacolare e non privo di controversie, quello cinese, dove, tra questioni legate ai diritti umani e boicottaggi sulla quale onda cavalcano i brand nazionali, nella speranza di un sorpasso, a stupire rimane Nike. Se anche il brand dello swoosh è stato inserito dal governo nella "lista di proscrizione" per via della questione di Xinjang, alcuni analisti sostengono che le posizioni politiche potrebbero addirittura giovare al brand. Parlando con Retail Gazette, l'analista Damon Verial sostiene che «mentre i prodotti di brand come H&M sono stati cancellati velocemente dai siti di e-commerce, quelli di Nike e Adidas continuano ad essere disponibili sul maggiore marketplace cinese, Tmall. Inoltre, il boicottaggio è stato auspicato dalle alte cariche di governo, non dai clienti, con delle notizie singole che potrebbero esser state volutamente esagerate. Impauriti dalla possibilità che si attui un vero e proprio veto, i cinesi potrebbero riversarsi negli store per acquistare le sneaker e i prodotti del brand». Un evento che potrebbe far da traino ad una crescita in Cina, dove Nike ha archiviato il terzo trimestre del 2020 con un +51%. E aggiungere un altro tassello ad un mercato in via di definizione, che tra luci e altrettante ombre, sta provando a immaginare chi vuole diventare da grande.